In questi giorni, si discute molto di scuola, per via delle complicanze avute in seguito all’emergenza coronavirus, e della strategia di ripresa che ha visto molte categorie della scuola stessa esprimersi in modo critico.
Nelle scorse settimane è ricorso anche l’anniversario della morte di don Milani. Allora c’è anche chi si è posto una domanda da mille punti. In questa situazione così difficile, con opinioni profondamente contrastanti tra loro, cosa avrebbe detto il priore di Barbiana?
Le linee guida del Ministro Azzolina
Le linee Guida proposte dal Ministro Azzolina riconoscono il ruolo della società civile, partecipando in maniera attiva al sistema educativo per svolgere “attività di sorveglianza e vigilanza degli alunni”, come fa notare il periodico interamente dedicato al terzo settore “Vita”.
“Ve lo immaginate don Lorenzo delegato alla sorveglianza e vigilanza in collaborazione con il sistema scolastico formale?!”, si chiede ironicamente il magazine. Certamente, la domanda su come il parroco di Barbiana avrebbe affrontato la questione la vicenda delle norme sanitarie richieste dall’emergenza del coronavirus, se stare dentro oppure fuori dalla classe, se mettere il plexiglas sui banchi oppure fornire i dispositivi elettronici agli studenti, non è facile.
Cosa avrebbe pensato Don Milani?
Nessuno ha la palla di vetro e si rischierebbe di infangare, o di non rendere il giusto merito, a una personalità che ha segnato profondamente la Chiesa e il cattolicesimo del novecento, specialmente in ambito educativo. La cui figura, peraltro, troppo spesso viene presentata in una maniera estremamente edulcorata, ma purtroppo altrettanto distante dalla realtà impegnativa e ferrea incarnata da Don Milani.
La principale lezione che viene dalla scuola Barbiana, è quella di reagire alle ingiustizie sociali, dell’immobilismo sociale, dei figli degli operai e dei contadini destinati a fare gli operai dopo essere bocciati con maggiore facilità rispetto ai bimbi che provenivano da famiglie borghesi o benestanti. Oggi, a distanza di oltre mezzo secolo, su molti aspetti purtroppo non abbiamo in realtà fatto grandi passi avanti. A differenza di quanto si possa o voglia credere.
Le differenze sostanziali che persistono e la lezione di Don Milani
In particolare nei grandi centri urbani, le differenze sostanziali tra scuole e alunni ci sono, e la difficoltà ad offrire un servizio per tutti uguale è ancora alta, in certi casi una vera e propria chimera, alla prova della realtà. Don Milani la chiamava, semplicemente, disuguaglianza. Quindi sottolineandone la straordinaria ingiustizia a cui molti ragazzi sono sottoposti ancora oggi.
In Lettera ad una professoressa, il più famoso testo del sacerdote, scritto nel 1967, viene spiegato che la variabile del mestiere del babbo e quella dei ragazzi che abbandonavano tra la quinta elementare e la prima media era evidente. Quasi l’ottanta per cento era figlio di contadini, il 15 per cento era figlio di operai. Poi c’erano gli altri, divisi in tante sottocategorie. Ma i figli dei ricchi abbandonavano la scuola in una media dell’1,4 per cento.
La riforma della scuola, cinquant’anni dopo
La lettera si inscrive anche all’interno del movimento studentesco del ’68, che divise in due non solo la società, ma per certi aspetti anche la Chiesa. Oggi, quei tempi sono incredibilmente lontani, e la società ha fatto enormi passi in direzioni diverse, per certi versi ancora più complicate, e certamente non sempre positive. In quegli anni prese vita, in Italia, la riforma sociale del sistema scolastico ed universitario, che puntava a creare maggiore mobilità delle classi sociali.
Un problema che, nel 2020, con lo scoppio della pandemia, in Italia è ancora molto attuale. La crisi del sistema scolastico nel nostro paese è sempre più forte, e nel periodo della quarantena si rilevano un numero molto alto di studenti che, dietro le lezioni online, sono praticamente spariti dai radar dei propri insegnanti. La povertà minorile è incredibilmente ancora oggi molto alta, e le classi sociali vivono praticamente di un immobilismo che, se non assoluto, è molto marcato.
I figli dei poveri hanno più difficoltà, anche con il coronavirus
“Una definizione che sebbene sia sparita dal vocabolario del politicamente corretto resta immutata nei fatti: i figli dei poveri, nonostante una scuola ‘uguale per tutti’, restano al palo più di prima”, spiega la rivista Vita. Le alleanze che hanno condiviso il manifesto “educAzioni. 5 passi per contrastare la povertà educativa e promuovere i diritti delle bambini, dei bambini, degli e delle adolescenti” hanno infatti messo in fila alcuni dati.
Da cui emerge un quadro assolutamente allarmante. Nel 2018 l’Istat ha certificato che 1 milione e 260 mila minorenni sono in povertà assoluta. Il 12,5 per cento dei bambini tra 0-2 anni ha accesso ad un asilo pubblico comunale, con gravissimi squilibri territoriali. Il 24,7 per cento ha accesso a un servizio pubblico o privato.
Le percentuali che ci mostrano realtà fortemente negative
Il 14,5 per cento degli adolescenti esce prematuramente dal circuito scolastico. Il 13,5 per cento dei giovani abbandonano prematuramente gli studi. Il 24 per cento dei quindicenni non raggiunge competenze minime in matematica. E infine il 12,3 per cento dei dei ragazzi tra 6 e 17 anni vive in case prive di pc o tablet.
Numeri impietosi di cui il governo dovrebbe prendere appunti, piuttosto di cercare di tappare buchi con rimedi parziali o inefficaci. Vita ricorda che il Ministro Azzolina, quando si tratta di fare dichiarazioni, è più che brava. “La scuola a settembre deve riaprire non solo in ottica di sicurezza, ma in un’ottica nuova, deve essere una scuola più aperta, più inclusiva”, ha dichiarato la Azzolina.
Scuola, c’è bisogno di fare ripartire l’educazione, non gli edifici
Ma quando si parla di coinvolgere la società civile, secondo il giornale del terzo settore la risposta è certamente più carente. “Alla società civile viene riconosciuta la possibilità di partecipare al sistema educativo complessivo per svolgere attività di sorveglianza e vigilanza degli alunni”, spiega.
“E’ tutto qui l’errore di un’idea che parte bene ed atterra male: l’idea che l’educazione si esaurisca nella scuola e che l’emergenza Covid richieda solo la ricerca di nuovi spazi a disposizione per “allargare” le mura”. Cioè non si può spostare il dibattito solamente sulle aule, c’è bisogno di guardare ai ragazzi, alla loro educazione e nella loro interezza. Bisogna ricordarci che sono loro al centro della scuola, e non gli insegnanti o gli edifici.
Bisogna migliorare i contenuti e non il contenitore
Non serve perciò migliorare il contenitore, ma i contenuti. Quindi, è necessario costruire relazioni efficaci e significative. Parlando ai giovani e con un linguaggio nuovo. Stringendo con i giovani relazioni nuove ed edificanti, ponendo le basi per una società dell’incontro tra generazioni e della crescita comune, per trascinare ciò che è stato in ciò che sarà.
Non basterà perciò trasferirsi in campagna o nei cortili, per avere una scuola migliore. Bisogna pensare di valorizzare il patrimonio che già esiste in Italia, coinvolgendo tutti gli attori sociali e non rinchiudendosi in un fortino. Mettendo in connessione la scuola con le comunità che la ospita.
Puntando a nuovi orizzonti, rivolgendo lo sguardo verso l’alto e non verso il basso, con i piedi tuttavia ben piantati a terra. Guardando di più, magari, al parroco di Barbiana.
Giovanni Bernardi
fonte: vita.it
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