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Coronavirus e smart-working. Anche per gli asintomatici è vietato lavorare

In Italia la maggior parte dei positivi al Coronavirus sono asintomatici. Eppure, per le attuali regole, per loro è vietato lavorare: anche in smart-working.

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La quarantena, infatti, secondo le regole stabilite dalle autorità governative, comincia nel momento in cui il tampone dà esito positivo. A prescindere dalla propria malattia. Ora arriva la notizia che per i positivi al Coronavirus, anche se asintomatici, è vietato lavorare. Anche se sono a casa.

I contagiati, anche se non hanno sintomi, non possono lavorare

La questione è stata disciplinata con i decreti Cura Italia e Rilancio, che ora sono stati convertiti in legge. Gli studi legali in questi giorni stanno infatti spiegando a chiunque si rivolga a loro, in particolare aziende, che non si può fare. Chi è positivo al coronavirus non può lavorare da casa nemmeno se è d’accordo.

Anche lo stesso isolamento, obbligatorio per le persone che tornano dalle vacanze in zone a rischio in attesa del tampone, equivale ad essere positivo al coronavirus, ovvero si è in malattia. Quindi c’è il divieto di lavorare. Oggi, a differenza delle prime settimane di emergenza, i tamponi vengono effettuati a molte più persone. E il numero di positivi, in questo modo, aumento. Negli ultimi 30 giorni ci sono stati 21.724 casi, il 75 per cento riguardanti individui in età lavorativa.

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Il numero di persone interessate dal problema

In sostanza circa diecimila persone ad oggi sono interessate dalla questione. Ma la platea, potenzialmente, potrebbe alzarsi fino a 300 mila al giorno. Un danno per le aziende ma soprattutto un peso consistente per le casse dell’Inps.

“Forse si potrebbe valutare la possibilità di fare lavorare in smart working gli asintomatici quando c’è il consenso del lavoratore”, ha commentato il professor Andrea Crisanti. Ora il governo dovrà affrontare la questione dello smart working con sindacati e imprese. Di fatto, però, la pandemia è stata il trampolino per l’inizio del lavoro in smart working in Italia per i dipendenti del settore privato.

Smart-working, come cambierà il lavoro nel nostro Paese?

I numeri infatti ci dicono che l’Italia era molto indietro rispetto a Paesi, come Francia e paesi scandinavi. Nella fase prima della quarantena in Italia 480mila avevano usufruito del lavoro da remoto per almeno un giorno, mentre nel periodo che va da marzo a giugno sono passati a 1,5 milioni, secondo quanto emerge da uno studio del ministero del Lavoro e dell’Inail. Con picchi del del 90 per cento nelle amministrazioni centrali.

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“I rischi maggiori sono l’isolamento e il mancato coinvolgimento aziendale ma anche quello di non porre un limite fra orari di lavoro, tempo libero e diritto alla disconnessione”, ha spiegato al Corsera Sergio Iavicoli, direttore dipartimento medicina, epidemiologia e igiene del lavoro e ambientale Inail e membro del Cts.

Il bilancio prospettivo riguardo allo smart-working

“Nel complesso il bilancio è positivo e di grande prospettiva. Il tabù faceva sì che l’Italia avesse fino al 2019 solo il 2 percento di lavoratori in smart working cioè meno di un quinto della media europea”. L’esperto ha spiegato che questi lavoratori hanno contribuito notevolmente al contenimento della pandemia, garantendo la sostenibilità del lavoro.

Ora però c’è bisogno di un approccio che analizzi il fenomeno più in profondità, nella speranza che si faccia tesoro di uno dei fattori più positivi, per quanto riguarda l’economia e il mondo del lavoro, emersi da questo periodo nero.

Giovanni Bernardi

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Giovanni Bernardi

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