Santa Bakhita: la donna che perdona e ringrazia i suoi torturatori, ma c’è un motivo

Santa Giuseppina “Bakhita” che in arabo significa “fortunata”, è chiamata così dagli uomini che l’hanno rapita e poi torturata.

Un nome apparentemente dissonante rispetto al calvario che ha segnato gran parte della sua vita, fin da bambina.

Santa Bakhita perdono
Spoglie di santa Bakhita nella chiesa della Sacra Famiglia di Schio (Vicenza) – photo web source

Ma successivamente si rivelerà il segno profetico di un percorso che la porterà, malgrado tante dolorosissime vicissitudini, a incontrare Cristo, e a diventare una religiosa felice e a farsi santa.

Nasce in un piccolo villaggio del Sudan nel Nordafrica, e a soli 7 anni viene rapita da mercanti arabi di schiavi, mentre sta raccogliendo le erbe in un campo vicino a casa. Il trauma è di tali proporzioni che dimentica il proprio nome e quello dei suoi familiari.

Bakhita e il male indicibile che subisce

Tra il 1877 e il 1833 cambia padrone cinque volte, il più spietato tra questi è un generale turco che la sottopone a un atto di violenza disumana: con un rasoio le fa incidere su tutto il corpo, tranne il viso, 114 tagli profondi circa un centimetro.

Per assicurarsi che le rimanessero visibili le cicatrici, glieli hanno addirittura ricoperti col sale. Il supplizio è così atroce che per giorni rimane tra la vita e la morte.

Riesce a sopravvivere al disumano male fisico che le hanno inflitto e infine viene comprata dal console italiano, Callisto Legnani, residente nella capitale del Sudan. Tre anni dopo in seguito allo scoppio della Guerra Mahdista, arriva in Italia, e diventa la bambinaia presso la famiglia di Augusto Michieli, amico del console, che risiede in un paesino del Veneto.

Lì, Bakhita ha l’occasione di conoscere la realtà delle suore canossiane. Nel 1890 chiede di poter essere battezzata e qualche anno dopo, superando non poche contrarietà, si consacra ed entra finalmente nella loro congregazione.

Santa Bakhita
Santa Giuseppina Bakhita – photo web source

Svolge per circa cinquant’anni compiti umili ma con tanta generosità d’animo. Si distingue per il suo grande cuore, la voce sempre calma e il suo splendido sorriso. Trascorre tutto il suo tempo davanti al tabernacolo.

Tutti la chiamano affettuosamente la “Madre moretta”. Un giorno durante un convegno le chiedono: ”Cosa farebbe se incontrasse i suoi rapitori?” E Bakhita senza alcuna esitazione: “Se incontrassi quei trafficanti di schiavi che mi hanno rapita, e anche quelli che mi hanno torturata, mi inginocchierei a baciare loro le mani, perché se non fosse accaduto ciò, non sarei ora cristiana e suora”.

Sopporta con serena pazienza la dolorosa malattia, soffre infatti di una grave forma di artrite deformante, che la obbliga nell’ultimo periodo della sua vita, alla sedia a rotelle, associata a una bronchite asmatica cronica. Muore a causa di una polmonite l’8 febbraio 1947.

Passano soli 12 anni dalla sua morte, e inizia il processo di canonizzazione: nel 2000 è riconosciuta Santa sotto il pontificato di San Giovanni Paolo II.

Perché è tanto importante perdonare?

Ricordo di essere rimasta sbalordita di fronte a una persona che riferendosi a Santa Bakhita ha espresso queste parole: ”Non ha poi fatto nulla di speciale, ha solo perdonato”. “Ma come ha solo perdonato”, ho pensato tra me e me.  Con prontezza il sacerdote presente le ha risposto: ”E le sembra poco?”.

Penso che il perdono sia la cosa più difficile da mettere in pratica e possibile solo con l’aiuto della grazia, altresì il dono più prezioso per la nostra pace interiore. Sta a noi chiederlo al Signore per poterlo concedere agli altri e di conseguenza a noi stessi, per essere davvero liberi nel cuore da ogni forma di rancore, desiderio di vendetta o rivalsa. E Bakhita non solo lo aveva capito benissimo, ma lo aveva realizzato pienamente, trasmettendo a tutti intorno a sé una serenità e una piena adesione a Cristo.

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