L’Ora santa di Gesù: I. “Se non ti laverò non avrai parte nel mio Regno”

L’Ora santa di Gesù: I. “Se non ti laverò non avrai parte nel mio Regno”
Gesù nell’orto degli ulivi. Fotogramma tratto dal film “The passion of the Christ” di Mel Gibson.

L’Ora santa ha sempre avuto una grande importanza nella devozione cattolica al Cuore di Gesù. Il papa Pio XI l’ha lodata e raccomandata nella Enciclica “Miserentissimus Redemptor”.

Origine dell’Ora santa

L’origine di questa pratica è dovuta a Gesù stesso che, apparendo nella cosiddetta terza apparizione del 1674, domandò a santa Margherita Maria Alacoque di partecipare, tutte le notti tra il giovedì e il venerdì dalle 23 alle 24, alla sua agonia nell’orto degli ulivi. Lo scopo di tale pratica espresso da Gesù è: placare l’ira di Dio, implorare misericordia per i peccatori e consolare lui nel dolore provato per l’abbandono dei discepoli.

L’Ora santa di Gesù dettata a Maria Valtorta

Due giorni prima della festa del Sacro Cuore di Gesù, il 14 giugno 1944, la mistica cattolica Maria Valtorta scrisse una bellissima meditazione da utilizzare per questa pia pratica. Consideriamo che all’epoca della sua stesura l’Italia era coinvolta nel secondo conflitto mondiale. Maria Valtorta si trovava sfollata nel comune toscano di sant’Andrea in Compito (LU). La sua psiche, già fortemente provata da una malattia fisica invalidante che la inchiodava al letto ormai da anni, era ulteriormente gravata non solo dai disagi dello sfollamento, ma ancor più dall’accesissimo dolore mistico della “notte dello spirito”, che si protrarrà per giunta anche dopo la stesura della meditazione. Sono del parere che lo stato spirituale e psicologico nel quale Maria versava non le permetteva di partorire le sublimi pagine spirituali della meditazione. Come allora ha potuto scriverle?
Studiando l’opera valtortiana, mi sono persuaso dell’origine soprannaturale degli scritti, condividendo il parere positivo che su di essi aveva il famoso biblista cattolico e beato padre Gabriele Maria Allegra (ofm).

Mi rendo conto che molti non riescono a trovarsi d’accordo con il mio giudizio, ma è bene che i molti si rendano conto che la diatriba sull’origine degli scritti valtortiani in alcun modo può influire sulla qualità teologica di questi scritti. Essi risultano essere conformi alla fede e alla molare della Chiesa Cattolica e tale conformità rimane, infatti, invariata nonostante li si considerino frutto dell’eccezionale capacità naturale dell’autrice o dono soprannaturale sotto forma di ispirazione o dettatura divina.
L’Ora Santa riportata ne “I Quaderni del 1943” di Maria Valtorta, come tutti gli scritti valtortiani, oltre ad essere conforme alla morale e alla fede della Chiesa Cattolica, esprime in un linguaggio comprensibile ai più una pregnanza spirituale e teologica eccezionale. Per queste ragioni la offro alla lettura sia di chi crede nell’origine soprannaturale degli scritti valtortiani e sia di chi li considera frutto della capacità eccezionale dell’autrice.

Dividerò la meditazione in quattro puntate, tante quante sono le parti in cui Gesù stesso l’ha suddivisa:
I. “Se non ti laverò non avrai parte nel mio Regno”.
II. “Uno di voi Mi tradirà”.
III. “Amatevi l’un l’altro come Io vi ho amato”.
IV. “Se rimanete in Me e rimane in voi la mia Dottrina, vi sarà dato quel che chiedete”.

Durante la lettura dell’Ora santa, consiglio di ascoltare il canto della tradizione liturgica della Chiesa cristiano Ortodossa georgiana დავიღალე, მოდი ჩემთან (transl.: “davighale, modi chemtan”; it: “Sono stanco, vieni a me Signore”). È una lunga litania nella quale, con una melodia che facilita la concentrazione, viene ripetuta una unica strofa: “Sono stanco, vieni a me Signore”.

I. “Se non ti laverò non avrai parte nel mio Regno”

« “Se non ti laverò non avrai parte nel mio Regno”.

Anima che amo, e voi tutti che amo, udite. Io sono che vi parlo, perché voglio passare con voi quest’ora.

Io, Gesù, non vi allontano dal mio altare anche se ad esso venite con l’anima lesa da piaghe e malattie o avvolta in liane di passioni che vi mortificano nella vostra libertà spirituale, dandovi legati in potere della carne e del suo re: Lucifero.

Io sono sempre Gesù, il Rabbi di Galilea, quello che i lebbrosi, i paralitici, i ciechi, gli ossessi, gli epilettici chiamavano a gran voce dicendo: “Figlio di Davide, abbi pietà di me”. Io sono sempre Gesù, il Rabbi che tende la mano a colui che affoga e gli dice: “Perché dubiti di Me?”. Io sono sempre Gesù, il Rabbi che dice ai morti: “Alzati e vivi. Lo voglio. Esci dal tuo sonno di morte, dal tuo sepolcro, e cammina” e vi rendo a chi vi ama.

E chi vi ama, o miei diletti? Chi vi ama di amore vero, non egoista, non mutabile? Chi vi ama di un amore non interessato, non avaro, ma unica sua mèta è quella di darvi ciò che per voi ha accumulato e dirvi: “Prendi. È tutto tuo. Tutto questo l’ho fatto per te, perché sia tuo e tu ne goda”? Chi? L’eterno Dio. Ed Io a Lui vi rendo. A Lui che vi ama.

Io non vi allontano dal mio altare. Perché quell’altare è la mia cattedra, è il mio trono, è la dimora del Medico che guarisce ogni male. Da qui Io vi insegno ad avere fede. Da qui, Re di Vita, vi dono la Vita. Da qui mi curvo sulle vostre malattie e le risano con l’alito del mio amore. Faccio più ancora, o figli. Scendo da questo altare e vi vengo incontro. Eccomi che mi faccio alla soglia di queste mie case dove troppo pochi entrano e in meno ancora vi entrano con fede sicura. Eccomi che, figura di pace, mi affaccio sulle vostre vie dove passate accasciati, avvelenati, arsi dal dolore, dall’interesse, dall’odio. Ecco che vi tendo le mani, perché vi vedo vacillare stanchi sotto il peso di macigni che vi siete imposti e che hanno preso il posto di quella croce che lo vi avevo data in mano per ché vi fosse sostegno come lo è il bordone per il pellegrino. Ecco che vi dico: “Entra. Riposa. Bevi”, perché vi vedo esausti, assetati.

Ma voi non mi vedete. Mi passate accosto, mi urtate, talora per malanimo, talora per offuscamento di vista spirituale, mi guardate delle volte. Ma sapete di esser sozzi e non osate accostarvi al mio candore di Ostia divina. Ma questo Candore vi sa compatire. Conoscetemi, uomini, che di Me diffidate perché non mi conoscete.

Udite. Io ho voluto la sciare la Libertà e la Purezza che sono l’atmosfera del Cielo e scendere in questo vostro carcere, in quest’aria impura, per aiutarvi, perché vi amo. Più ancora ho fatto: mi sono privato della mia libertà di Dio e mi sono reso schiavo di una carne, l’Infinità serrata in un pugno di muscoli e ossa, soggetta a sentire le voci di questa carne a cui è pena il freddo e il sole, la fame, la sete, la fatica. Tutto potevo ignorare. Ho voluto conoscere le torture dell’uomo decaduto dal trono di innocente per amarvi di più.

Non mi è bastato ancora. Ho voluto – poiché per compatire bisogna patire ciò che patisce chi si compatisce – ho voluto sentire l’assalto di tutti i sentimenti per sentire le vostre lotte, per capire quale astuta tirannide vi pone nel sangue Satana, per comprendere come è facile rimanere ipnotizzati dal Serpente se si abbassano un solo momento gli occhi sul suo sguardo fascinatore, dimenticando di vivere nella luce. Perché nella luce non vive il serpe. Va nei recessi ombrosi che paiono riposanti e sono unicamente insidiosi. Per voi queste ombre hanno nome: donna, denaro, potere, egoismo, senso, ambizione. Vi eclissano la Luce che è Dio. In mezzo ad esse è il Serpente: Satana. Pare un monile. È la corda per il vostro strangolamento. Ho voluto conoscere ciò perché vi amo.

Non mi è bastato ancora. A Me sarebbe bastato. Ma la Giustizia del Padre poteva dire alla sua Carne: “Tu hai trionfato dell’insidia. L’uomo-carne come Te ora, non sa trionfare, e perciò sia punito perché Io non posso perdonare a chi è sozzo”. Ho preso su Me le vostre sozzure. Quelle passate, quelle del momento e quelle future. Tutte. Più di Giobbe immerso in un letamaio putrido per fare velo alle sue piaghe Io fui, quando sommerso dal peccato di tutto un mondo non osavo neppur più alzare gli occhi a cercare il Cielo, e gemevo sentendo pesare su Me il corruccio del Padre accumulato da secoli, cosciente delle colpe avvenire. Un diluvio di colpe sulla Terra, dalla sua alba alla sua notte. Un diluvio di maledizioni sul Colpevole. Sull’Ostia del Peccato.

O uomini! Più innocente di un pargolo che la madre bacia al ritorno dal suo battesimo Io ero. E di Me inorridì l’Altissimo perché ero il Peccato, avendo preso su Me tutto il peccato del mondo. Ho sudato di ribrezzo. Sangue ho sudato per il ribrezzo di questa lebbra su Me che ero l’Innocente. Il sangue m’ha rotto le vene nello schifo di questo fetido stagno in cui ero sommerso. E a compiere questa tortura, a spremere dal cuore il mio sangue, si è unito l’amaro di esser maledetto, perché non ero in quell’ora il Verbo di Dio: ero l’Uomo. L’Uomo. Il Colpevole.

Posso, Io che ho provato, non comprendere il vostro avvilimento e non amarvi perché siete avviliti? Vi amo per questo. Non ho che ricordare quell’ora per amarvi e chiamarvi: “Fratelli!”. Ma chiamarvi così non basta perché il Padre vi possa chiamare: “Figli”. Ed Io voglio che così vi chiami. Che fratello sarei se non vi volessi meco nella Casa paterna?

Ecco allora che vi dico: “Venite, che Io vi lavi”. Nessuno è tanto lurido che il mio lavacro non lo de terga. Nessuno è tanto puro da non aver bisogno del mio bagno. Venite. Non è acqua questa. Vi sono fonti di miracolo che sanano le piaghe e i morbi della carne. Ma questa è più di esse. Questa fonte sgorga dal mio petto.

Ecco il Cuore squarciato da cui zampilla l’acqua che lava. Il mio Sangue è la più limpida acqua che sia nel creato. In esso si annullano infermità e imperfezioni. E bianca e integra torna la vostra anima, degna del Regno.

Venite. Lasciate che Io vi dica: “Io ti assolvo!”. Apri temi il vostro cuore. In esso sono le radici dei vostri mali. Lasciate che lo entri. Lasciate che Io sleghi le vostre bende. Vi fanno ribrezzo le vostre piaghe? Viste alla mia luce vi appaiono qual sono: brulicanti di vermi schifosi. Non le guardate. Guardate le mie. Lasciatemi fare. Ho mano leggera. Non sentirete che una carezza… e tutto sarà guarito. Non sentirete che un bacio e una lacrima. E tutto sarà mondato.

O come belli sarete, allora, intorno al mio altare! Angeli fra gli angeli del Ciborio. E grande gioia ne avrà il mio Cuore. Perché sono il Salvatore e non disprezzo nessuno. Ma sono anche l’Agnello che si pasce fra i gigli, e d’esser circondato di candore mi beo perché per farvi candidi ho preso vita e ho dato vita.

O come vedo sorridervi il Padre e sfolgorarvi dei suoi fulgori l’Amore, perché non siete più macchiati di peccato!

Venite alla fonte del Salvatore. Il mio Sangue scenda sull’animo contrito e una voce, in cui è la mia, dica: “Io ti assolvo nel nome del Padre, Figlio e Spirito Santo”.»

Continua…

Flaviano Patrizi

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