
E’ molto facile che i principi di una Setta risultino allettanti, anche per il cristiano, che potrebbe avere una fede acerba o una conoscenza superficiale degli insegnamenti di Dio.
L’errore più comune è quello di supporre che la spiritualità sia sempre benevola e che la ricerca del “Dio” porti sempre al nostro Signore.
Si parte dalla ricerca di se stessi, delle potenzialità celate e inutilizzate, che vengono ritenute latenti e di validità scientifica comprovata, oltre che legittime ed auspicabili per ognuno.
La persona/adepto, che in quel momento è più debole, che sta affrontando un periodo poco felice della sua esistenza, dunque, può cedere e lasciarsi abbindolare da quella pseudo ricerca della serenità, che pare altri abbiano realmente raggiunto, con quelle pratiche.
Il senso di colpa, per il fallimento che ne deriva, comincia, così, a rappresentare il legame inscindibile tra l’adepto e la Setta, con i propagatori della filosofia del gruppo.
Ecco che la vita privata viene, dunque, messa a disposizione di tutti, come esempio perché altri facciano diversamente. La persona, la sua autostima, i suoi affetti sono messi continuamente in discussione, avviliti e mortificati, col pretesto di migliorarli in seguito.
Si inculca nella mente dell’adepto di dover accettare un isolamento fisico e psicologico, che esalta le regole della Setta, fino a che non se ne potrà più fare a meno (lavaggio completo del cervello).
Alcune Sette pretendono persino del denaro e obbligano a lavorare solo per loro, anche gratis.
In ultimo, il solo pensiero di abbandonare il gruppo è ritenuto un tradimento ed è fatto percepire -a torto- come un fallimento dell’adepto, quando, invece, sarebbe, ed è, un segno di liberazione, dal soggiogamento indotto da gente senza scrupoli, che vive una spiritualità malata e malefica.
Antonella Sanicanti