Come Santa Rita: la ferocia subita l’ha portata al vero perdono

Per quale motivo è stata insignita del premio internazionale Santa Rita?

Per aver perdonato e pregato per il carnefice di sua figlia

Perdono Elisabetta Parmigiani - Santa Rita

E’ la notte tra sabato 11 e domenica 12 febbraio 2012, Carla, una studentessa di appena 20 anni viene trovata in fin di vita.
La ragazza è in mezzo alla neve, svestita e insanguinata, a pochi passi dall’uscita della discoteca Guernica a Pizzoli in provincia dell’Aquila. Era andata in quel locale a ballare con un’amica. Uno stupro lucido e calcolato che ha lasciato il piccolo comune dell’Aquilano sotto shock.

L’incontro a Cascia durante la festa di Santa Rita

Ho conosciuto Elisabetta Parmigiani, la mamma di Carla, in occasione dei festeggiamenti nel Santuario di Cascia. Aveva appena ricevuto il prestigioso Riconoscimento Internazionale a Santa Rita per aver pregato e perdonato Francesco Tuccia, il ragazzo che usò violenza su sua figlia e la lasciò in condizioni disperate.

Le ho parlato solo qualche minuto, ma mi sono rimanesti impressi i suoi occhi che brillavano di una forza, di una luce che solo Qualcuno dall’Alto poteva infonderle. E mi sono ripromessa di raccontare la sua storia e di Carla, per testimoniare che chi sceglie la via del perdono, del dialogo, della pace, vince sempre!

Elisabetta ricorda quel tragico momento.

”Quando ho saputo quello che era stata fatto a mia figlia, ho provato la sensazione di essere sotto la croce con Maria. Lei mi ha dato la forza. Lei che ha accettato che tutto si compisse perché qualcun altro potesse essere salvato. Mia figlia è stata trovata non distante dall’uscita del locale, riversa sulla neve, priva di sensi con più poca autonomia vitale. Il buttafuori che l’ha soccorsa, è stato come un angelo.

Gli angeli non sono solo in cielo

Noi pensiamo che gli angeli siano solo nel Cielo ed invece il Signore usa le persone per aiutarci, per salvarci. E’ stata trasportata all’ospedale San Salvatore dell’Aquila e sottoposta d’urgenza ad intervento chirurgico. Mentre accadeva tutto ciò, i carabinieri suonavano al portone di casa nostra per darci la drammatica notizia.

“Il militare davanti a me – prosegue Elisabetta – era in grande difficoltà, era pallido e non trovava le parole per dirmi quello che era successo, con poca voce mi diceva:’Sua figlia Carla ha avuto un incidente’. Subito gli domandavo se aveva avuto un incidente stradale ma di fronte all’esitazione dell’uomo, un forte presentimento attraversava la mia mente. E ho capito tutto.

Il carabiniere m’invitava a prendere gli abiti di Carla che rischiava di non sopravvivere. Invece io afferravo al volo la Bibbia e il rosario che tenevo in camera e nient’altro, neppure il suo pigiama”.

Cinque interminabili ore!

“Insieme a mio marito, Domenico, correvamo…correvamo…disperatamente! Partimmo da Rivoli alle 5 del mattino e arrivammo all’ospedale alle 10. Cinque interminabili ore! Non solo, ma a un certo punto si ruppero anche le catene della macchina. Un’amica, messa al corrente di tutto, si offrì di raggiungerci in fretta con delle catene di ricambio all’area di servizio più vicina, per consentirci di proseguire. Grazie a Dio non era necessario, la situazione andava migliorando e l’autostrada diventava più praticabile.

Nonostante tutto ero lucida e calma dentro di me. Io stessa ero stupita di quell’irrazionale stato d’animo vista la drammatica situazione. Durante il viaggio non parlavo con mio marito ma pregavo in silenzio. A un certo punto lui mi domandò se avessi preso i vestiti. Domenico temeva il peggio. Gli risposi che non ce ne sarà bisogno. Arrivati all’ospedale, trovavamo tantissima gente: poliziotti, magistrati, carabinieri, medici…tutti che parlavano ad alta voce. Ricordo che mi girai verso di loro chiedevo un po’ di silenzio.

Non posso dimenticare quel momento! Il medico che l’aveva operata mi veniva incontro dicendo:’Sua figlia è appena uscita dalla sala operatoria, ce l’ha fatta!!’ Alzai le braccia al cielo esclamando:’Signore ti ringrazio! Ti ringrazio perché mia figlia è viva!’ Non ci sono parole per esprimere quello che ho provato nel mio cuore, mia figlia era salva!”.

Elisabetta si commuove nel ricordare quegli istanti drammatici, rimasti indelebili nella sua mente.

”Penso che qualsiasi mamma possa immaginare cosa si prova nel vedere la propria figlia in quelle condizioni, tutta intubata. Era fuori pericolo, ma i medici erano dovuti intervenire in più punti del suo corpo e ricostruirle tutto l’apparato digerente. Me ne stavo seduta affianco a lei, al suo letto mentre ancora dormiva sotto l’effetto dell’anestesia. Pensavo a Gesù nel Getzemani e mi rivolgevo a Dio:’Perché mi fai vivere tutto questo, perché?! Dio fallo passare ma se lo devo affrontare ti prego dammi una parola di conforto’.

Aprii la Bibbia ed uscì questa parola “Daniele nella fossa dei leoni” (Dn 6, 16-23): Dio mandò il suo angelo che ha chiuso le fauci dei leoni e Daniele si salvo. Non convinta la riaprii una seconda volta ed uscì “I giovani nella fornace”(Dn 3,46-50): l’angelo del Signore allontanò da loro la fiamma del fuoco che non fece a loro alcun male. Quelle parole mi avevano rassicurato, non avevo più paura, avevo acquistato forza e fiducia. E a mio marito dissi:Il Signore ce l’ha detto e confermato, è con noi sempre, e ci aiuterà! Dio ci ha risposto”.

E ora nell’affrontare una nuova vita, iniziavano i problemi più grandi

Carla rimase venti giorni in ospedale, nonostante la sofferenza erano stati giorni ovattati e protetti dal frastuono del mondo. Dopo, nell’affrontare di nuovo la vita, iniziarono i problemi più grandi. Dietro consiglio degli psicologi, Carla si era trasferita in un luogo segreto, lontano, per il suo recupero psico-fisico. Non poteva più frequentare l’Aquila, essendo il suo carnefice, Francesco, agli arresti domiciliari senza restrizioni, con possibilità di uscita dalle 9 alle 13.

Tramite una catechista della nostra comunità parrocchiale, ci rivolgemmo alla comunità Oreb a Ciciliano in provincia di Roma. Vicino all’ingresso – racconta Elisabetta – c’era la grotta di Lourdes con la statua della Madonna. E proprio nell’anniversario delle apparizioni, era accaduto il tragico fatto. Sentivo che la Madonna era vicina a noi. Poi all’improvviso pensai a mio zio Ulisse, sacerdote, che frequentava abitualmente casa nostra. Lo sentivo presente. Avevo sempre fatto tesoro delle sue parole amorevoli e rassicuranti.

Quando avevo un problema, lui m’invitava a confidare nella Madonna della Fiducia. Stavo vivendo il dolore più atroce della mia vita e il ricordo dei suoi preziosi consigli m’infondeva speranza. Scesi le scale che portavano al seminterrato e cosa vedi nella sala appeso alla parete? Un grande quadro della Madonna della Fiducia. Non potevo crederci!”.

Quei segni erano una consolazione

Tutti quei segni accrebbero in Elisabetta la consolazione e la fiducia che non erano soli. Dio, Gesù e la Madonna erano vicini a loro e questa sensazione non li ha più abbandonati. “Nell’agosto 2013, Carla è voluta andare a Lourdes, per ringraziare la Madonna per essere sopravvissuta a quella ferocia disumana e, a chiedere la grazia per ritrovare la corretta funzionalità della memoria. Il trauma di quella violenza, le aveva provocato difficoltà a ricordare le cose e uno stato di confusione alla testa.

La Madonna le ha risposto, e per sua intercessione ha recuperato la sua normalità. Si è trasferita in una grande città al nord, ha ricominciato da capo la facoltà d’ingegneria civile e con grande gioia e soddisfazione ha preso la meritata laurea. L’8 gennaio 2015 in cassazione, ultimo grado di giudizio, Francesco Tuccia è stato condannato a 7 anni e 8 mesi per violenza sessuale, crudeltà e sevizia.

Ora sta scontando la pena nel carcere di Avellino. “Il male che abbiamo subito lo ha potuto curare e lenire solo Dio, non c’è altra cura. La giustizia deve fare il suo corso ma non è quella che ti porta la pace dentro, quella te la dà solo Dio. Se noi non avessimo avuto Dio, saremo stati una famiglia distrutta, disintegrata” afferma con certezza Elisabetta.

Durante il processo notavo lo sguardo di mia figlia fissa su Francesco. Le domandavo perché lo guardava così. E lei con calma mi rispose: L’osservo per capire come può l’uomo arrivare a tanto, ma non riesco a provare nulla, non provo odio, non prova rabbia, solo non riesco a capire”.

Condanno il male che ha commesso ma non Francesco, il carnefice di mia figlia

“Condanno l’atto che ha compiuto Francesco – prosegue Elisabetta – ma prego per lui, e per coloro che compiono crimini di questo genere affinché si rendano conto, e nel momento in cui prendono coscienza, non siano sopraffatti dalla disperazione come è accaduto a Giuda. Magari non li vedremo i frutti, non qui, ma dobbiamo credere in modo indiscusso che la preghiera e il perdono sono il seme attraverso cui Dio spargerà la sua grazia. Di questo ne ho la certezza. Dio c’è e opera dentro di noi, non fuori.

Tante persone mi dicono come faccio ad essere felice, gli rispondo che l’infelicità avviene quando ci facciamo il film della nostra vita, la vogliamo decidere secondo le nostre aspettative, e quando qualcosa fa saltare i nostri programmi soffriamo. E’ giusto avere una progettualità, dei sogni ma legati sempre ad una transitorietà e, con l’incertezza di cosa può accaderci domani. Dobbiamo abbracciare la vita con la consapevolezza che l’unica cosa che ci salverà sarà l’amore che abbiamo donato durante la nostra vita”. La sua voce così pacata e fiduciosa, nonostante la sofferenza che le ha trapassato l’anima, esprime tutta la bellezza di Elisabetta.

Chiedo a Elisabetta come ha fatto a non provare rabbia?

Lei mi risponde che è una grazia, perché ci si può perdere e dannare nei sentimenti negativi, dobbiamo chiedere a Dio la capacità di perdonare. Magari a Francesco non interessa il nostro perdono, ma fa bene a noi, ci fa vivere meglio, è un dono che ricevi da Dio che ci vuole riappacificare con la vita. E noi tutti, come famiglia, l’abbiamo chiesto perché se perdona uno e gli altri no, funziona poco, e la grazia è arrivata per tutti.

Se noi riusciamo ad andare agli altri, a far sorgere in loro un interrogativo, soprattutto a chi è lontano dalla Fede, umanamente abbiamo già fatto tanto, sempre con discernimento e chiedendo a Gesù le parole giuste, perché se agiamo di testa nostra possiamo fare solo peggio, allontanare le persone. E’ il Signore che converte, non noi”. A chi le dice:”Tu sei una roccia”, lei risponde:” Non sono io la roccia ma è Dio la roccia su cui mi appoggio, è Lui la nostra salvezza”.

Simona Amabene 

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