Come fare per non cadere nell’abitudine di peccare.

confessioni1

COME SI CADE NELL’ABITUDINE DEL PECCATO.

Gesù, andato alla casa di Marta e di Maria, trovò che Lazzaro, loro fratello, giaceva da quattro giorni nel sepolcro. – Iesus invenit eum quattuor dies iam in monumento habentem (IOANN. XI, 17). Per cinque gradi Lazzaro scende nella tomba a putrefarsi:
1° per la languidezza: Erat languens…;

2° per la malattia: Infirmabatur…;

3° per il sonno: Dormit…;

4.° per la morte: Mortuus est…;

5° per la dissoluzione nello stato di cadavere: Iam foetet…;

e così ancora per questi gradi si rovina nell’abitudine del peccato.

Lazzaro che giace da quattro giorni nella tomba offre l’immagine del peccatore che è nell’abitudine di peccare mortalmente. Il primo giorno è per lui, quando cade pel consenso della sua volontà… Il secondo, quando consuma col fatto il peccato… Il terzo, quando ricade e contrae la consuetudine di ricadere… Il quarto, quando s’indurisce e si forma del suo peccato e delle sue ricadute una seconda natura, secondo quelle parole di S. Agostino: “La passione ha origine dalla volontà perversa; il servire alla passione diventa abitudine; non resistere all’abitudine trae alla necessità” (lib. VIII, Confess. c.5). Il medesimo santo Dottore dice ancora: A quel modo che per tre gradi, cioè la suggestione, la dilettazione ed il consenso, si giunge al peccato, così tre differenti stadii si trovano nel peccato: esso è nel cuore, nell’azione e nell’abitudine. Queste sono tre morti: la prima occorre, diremo così, nel recinto della casa, ed è quando s’apre il varco nel cuore alla passione. La seconda avviene come fuori di casa, ed è quando si consente all’azione. La terza ha luogo quando, per la forza delle abitudini cattive che schiacciano a mo’ di macigno, l’anima viene quasi gettata e chiusa in un sepolcro. Gesù Cristo ha risuscitato queste tre specie di morti; ma osservate la diversità di modi che, secondo la sua stessa parola, egli adopera per richiamarli a vita. Al primo morto e’ dice: “Levati su, fanciulla” — Puella, surge (marc. V, 41). Al secondo aggiunge: “Levati, che io te lo intimo” — Adolescens, tibi dico, surge (Luc. VII, 14). Per risuscitare il terzo si turbò, pianse, fremette due volte interiormente, si portò al sepolcro, e qui ad alta voce gridò: “Lazzaro, vieni fuori” — Lazare, veni foras (ioann. XI, 43). Così nel lib. I, De Serm. Domini in Monte al c. XXIII : e poi di nuovo nel Tratt. XLIV su S. Giovanni: “V’ha primieramente il solletico della dilettazione nel cuore…, poi il consenso…, quindi l’azione…, finalmente la consuetudine” — Est 1° titillatio delectationis in corde; 2° consensus; 3° factum; 4° consuetudo.
“Essi erano tutti legati con una medesima catena di tenebre” dice la Sapienza (XVII, 17) — Una enim catena tenebrarum omnes erant colligati. — Or la catena de’ delitti si va formando con l’abitudine; perché la suggestione del Demonio genera il diletto nel pensiero; il diletto provoca il consenso; il consenso porta al fatto; un fatto spinge ad un altro, ed ecco costituirsi la consuetudine. Questa trae la volontà a compiacervisi, e di qui poi l’abbandono di Dio, l’indurimento e la riprovazione. Gli atti abituali sono anelli che s’intrecciano gli uni agli altri; come dice benissimo la Glossa su quelle parole di Giobbe: “Io ho stabilito un patto co’ miei occhi” (XXXI, I), il pensiero tiene dietro allo sguardo; la dilettazione sorge dal pensiero; il consenso nasce dalla dilettazione; l’azione segue il consenso; l’abitudine viene dall’azione; la necessità s’ingenera dall’abitudine; la disperazione è frutto della necessità; la dannazione, della disperazione.

“La passione, scrive S. Gregorio ne’ Morali, s’accende come fuoco, e chi tarda a spegnerlo, si vede ben tosto andare come stoppa in fiamme”.

L’imprudenza e la follia degli insensati consiste nel non comprendere, nel non vedere la necessità di ben regolarsi; traviano dal retto sentiero, si smarriscono tra viottoli oscuri e tortuosi e gli errori delle seducenti passioni, a cui sono spinti dai sensi degradati e dalla concupiscenza, li trascinano da questa in quella, finche procedendo sempre peggio d’errore in errore si chiudono finalmente in un labirinto di consuetudini, e da questo precipitano all’Inferno, supremo ed irreparabile errore…

Badate a voi! grida Bossuet (Vol. II, Profession religieuse), che l’uomo vecchio il quale è in noi e contro cui dobbiamo lottare tutta la vita, non dà tregua e continuamente lavora a soppiantare l’uomo nuovo: il suo appetito indocile e impaziente, per quanto frenato dalla disciplina, solletica, corre e si precipita, qual prigioniero smaniante di libertà, verso ogni uscita; tenta per tutti i sensi di avventarsi su gli oggetti che gli piacciono. Modesto da principio, finge d’appagarsi di poco, non è che un desiderio imperfetto, una curiosità, un nonnulla; ma provatevi a soddisfare quel primo desiderio, e voi lo vedrete ben tosto attirarne parecchi altri, sino a tanto che l’anima tutta ne resta conquisa. Come un sasso gettato in uno stagno non tocca che in un punto le acque, eppure una volta ricevuto il moto questo si comunica dalle più vicine alle più lontane, cosicché in pochi istanti tutta la massa è commossa, così le passioni dell’anima nostra si svegliano a poco a poco le une le altre per via d’un movimento che si concatena…

CONSEGUENZE FUNESTE DELL’ABITUDINE CATTIVA

Se non si resiste alla consuetudine, questa diventa necessità, ha detto S. Agostino (Confess., lib. VIII, c. 5) ed a proposito di Lazzaro che giaceva nel sepolcro chiuso da un macigno — Et lapis superpositus erat ei (ioann. XI, 38) —, osserva che quell’enorme pietra figura la forza d’una perversa e dura abitudine, la quale schiaccia l’anima e non le permette né di risorgere, né di respirare (Serm. XLIV, De Verb. Dom. in Ioan.).

Se si rimane in quest’abitudine, si accumulano colpe su colpe e si finisce coll’essere esclusi per sempre dalla clemenza di Dio: — Appone iniquitatem super iniquitatem eorum, ut non intrent in iustitiam tuam (Psalm: LXV1II, 28). Il nome di costoro è cancellato dal libro de’ viventi, ed essi non sono nel numero dei giusti: — Deleantur de libro viventium et curii iustis non scribantur (Psalm. LXVIII, 29).

Chi si trova, in questa lacrimevole condizione, non si stanca nella sua iniquità, dice l’Ecclesiastico, e non sarà sazio finche non abbia dimagrita e consunta l’anima sua (Eccli., XIV, 9).

Cadere nel peccato è fragilità umana, scrive S. Bernardo, perseverarvi è malizia diabolica (Serm. In Psalm.); e Seneca diceva: “La prima e più grave pena per i peccatori sta nell’aver peccato; ne v’ha delitto che resti impunito, perché è già castigo il cadere di colpa in colpa” (In Prov.).

E’ proprio del peccato, come nota Bossuet (Vol. I, Péché d’habitude), imprimere nell’anima una macchia la quale va sfigurando in lei ogni bellezza, e ne cancella i tratti dell’immagine del Creatore ch’egli stesso v’impresse. Ma un peccato ripetuto, oltre questa macchia, produce ancora nell’anima una tendenza, una forte inclinazione al male, perché insinuandosi in fondo all’anima, ne inceppa tutte le buone inclinazioni, e col proprio peso la trascina agli oggetti terreni. Per notare la disgrazia del peccatore abituato, la Scrittura si serve di tre efficaci paragoni: “Egli ha vestito la maledizione come un abito; ed essa s’è infiltrata come acqua nelle sue viscere, e come olio ha penetrato le sue midolle” — Induit maledictionem sicut vestimentum; et intravit sicut acqua in interiora eius, et sicut oleum in ossibus eius (Psalm. CVIII, 17). Sì, la maledizione copre come una veste il peccatore consuetudinario, perché l’avviluppa tutt’intorno, ne signoreggia le parole e le azioni tutte: entra come l’acqua nel suo interiore e vi corrompe i pensieri; penetra qual olio nelle sue ossa che sono il cuore, l’anima, lo spirito. La veste simboleggia la tirannia, dell’abito; l’acqua l’impetuosità; l’olio una macchia che si spande dappertutto e difficilissimamente si toglie. Terribile malattia è questa dunque dell’abitudine di peccare!

Dio non abbandona mai nessuno, se non è abbandonato per primo, dice S. Agostino: — neserunt et deseruntur (in Psalm. V77). Ora i peccatori, e principalmente gli abituali, continua il medesimo Dottore, lasciano per i primi Iddio e poi Egli lascia loro: Adamo fu giudicato con questa norma: egli abbandonò, poi fu abbandonato: —Deseruit et desertus est. — e così avviene degli altri peccatori. In poche parole S. Agostino spiega come i peccati siano giusta punizione gli uni degli altri, ed in qual baratro si precipiti col ripetersi delle colpe abituali: “Il peccatore abbandonato da Dio cede e consente ai desideri perversi: e allora egli è vinto, preso, legato, e tenuto schiavo” (Contra Iulian.).

L’uomo s’abbandona all’abito di peccare, Dio ve lo lascia: due disgrazie spaventose!

QUANTO SIA DIFFICILE LASCIARE L’ABITUDINE DEL PECCATO.

Affinché il peccatore abituato esca dal suo stato, bisogna che Dio lo svegli con voce grande e potente, come fu quella con cui Gesù Cristo chiamò Lazzaro dal sepolcro: —Voce magna clamavit: Lazare, veni foras (IOANN. XI, 43), perché i consuetudinari sono sordi spiritualmente. Ma Iddio non è punto tenuto a tale miracolo: l’abitudine, poi oppone un ostacolo al miracolo della risurrezione spirituale.

Di Lazzaro sta scritto che aveva mani e piedi legati e la faccia avviluppata in un sudario: — Ligatus pedes et manus institis, et facies illius sudario erat rigata (ioann. XI, 44): e questa è la lacrimevole condizione del peccatore abituato… or, come uscire da questa tomba?… Udite Seneca che discorrendo della concupiscenza, la quale trascina all’abitudine del male chi l’asseconda, dice: “Voi non giungerete mai a ottenere che s’acquieti, se le darete libertà d’incominciare; torna assai più facile tenerla affatto lontana, che scacciarla quando sia entrata” (Epist. CXVII). “Uccidi il nemico mentre è debole”, grida S. Girolamo (Epistola XXII ad Eustoch.): e non trascurare le piccole cose, soggiunge S. Gregorio, perché, insensibilmente sedotto, commetterai le più gravi (Moral.). Allora poi si pecca senza rimorso, e, giunti a questo punto di perversità, non v’ha più rimedio. Tale è l’orribile stato del consuetudinario…
Chi aggiunge colpa a colpa ha il cuore traviato, dice Dio per mezzo del Salmista, egli non conosce le mie vie, ed ho perciò giurato nel mio sdegno, che non entrerà nel luogo del mio riposo (Psalm. XCIV, 10-11). Ah! “i perversi ben difficilmente s’emendano, esclama l’Ecclesiaste, e stragrande è la turba degli insensati”. — Perversi difficile corriguntur, et stultorum infìnitus est numerus (Eccl. I, 15).

“Non da ferro nemico, ma dalla mia ferrea volontà io ero legato, confessa S. Agostino; la mia volontà stava in balìa del mio nemico, il quale si era fatto di essa una catena con cui mi teneva stretto” (lib. VIII, Confess. c. 5). “E con tante catene il peccatore avvinghia se stesso, soggiunge S. Gregorio, quante volte ricade nella colpa” (lib. IV,Mor., c. XVIII).

Per enormi e orrendi che siano i peccati, scrive S. Agostino (Enchirid. c. LXXX), se avviene che diventino abito, sono considerati come leggeri, ed anche non più tenuti in conto di veri peccati; a tal punto che non solo non si tengono celati, ma si ostentano.
I consuetudinari non si correggono, dice la Scrittura, perché sono pazzi. E come no? mentre in 1° luogo il peccato è il sommo della pazzia, perché scombuia la ragione e soffoca il desiderio della virtù. Il peccatore antepone la creatura al Creatore, che è a dire un centesimo a tesori immensi, un granellino di frumento ad una ricchissima messe, il fango all’oro, una stilla d’acqua al mare, un mortifero veleno alla grazia ed alla vita eterna. Oh Dio, che insensatezza! 2° Ripetendo i peccati si contrae l’abitudine, questa mena alla necessità. Conoscete voi follia più funesta?… Si perfidia ostinatamente, si fa pompa del male… 4° Si ricusa ogni emendazione, si spregiano gli avvertimenti e le persone che per impulso di carità riprendono. Si fuggono i rimedi, si vuoi rimanere nella malattia. Ah qui, più che sragionevolezza, più che stupidità, bisogna dire che vi è il colmo della pazzia… La Scrittura dà a questa follia morale il nome di carestia del cuore, — egestas cordis — e chiama i peccatori abituali uomini senza cuore — Indigentes corde — cioè privi dell’uso della volontà (Prov. XI, 12).

“Giunto l’empio in fondo all’abisso del male, tutto disprezza”, dicono i Proverbi (Prov. XVIII, 3). A ragione pertanto scriveva il poeta: Arresta la passione in sul nascere, che troppo tardi giungerà il rimedio, se lasci che il male abbia tempo a far progressi; e l’anima, dice S. Giovanni Crisostomo, corrotta che sia, degradata per l’abito del peccato, languisce d’incurabile malattia, ne più si rimette in forze per quanti rimedi le offra Dio (Homil. ad pop. Antioch.).
Non è così facile svestire gli abiti viziosi, come il vestirli. La volontà, la quale può a suo talento schivare od abbracciare il male, s’avviluppa di per se stessa, come il baco da seta, nell’opera sua; e se i lacci dentro cui s’è irretita sembrano seta perché gradevoli, sono però ferro per la loro durezza. No, essa non è in grado di distruggere a sua posta la prigione che ella medesima si è fabbricata, né spezzare i fili di cui s’è cinta, E non mi state a dire, soggiunge Bossuet (Vol. I, Circoncis.), che essendo i vostri impegni affatto volontari voi possiate, con la medesima volontà che li ha contratti, quando che sia disdirli, perché anzi qui sta appunto il nodo, che quella medesima volontà, la quale si è impegnata, sia obbligata a disimpegnarsi; che essa, la quale forma o vuol formare i legami, s’impegni poi a scioglierli; che debba ella medesima sostenere ad un tempo l’urto e dar l’assalto. Or chi è dunque sì cieco che apertamente non veda come invano essa combatterà e si stancherà in inutili sforzi, se non viene a sostenerla una forza o un soccorso dal di fuori? Poiché non si resiste da forti e robusti per lungo tempo, scrive S. Ambrogio (In Psalm. CXVIII), quando è d’uopo vincere sé medesimo. Troppo faticosa ed accasciante è la lotta che l’uomo deve sostenere contro sé stesso e le sue passioni perché possa vincere da solo.

So bene che altri accusa il Demonio delle malvagie abitudini in cui vive, ma badate, grida S. Agostino (Confess.), che il Diavolo tripudia quand’è accusato, e niente meglio desidera se non die voi gettiate su di lui i vostri torti, affinchè perdiate così il frutto di un’umile confessione.
L’uomo deve superare due ostacoli, l’inclinazione e l’abitudine; quella rende il vizio amabile, questa lo fa necessario; e non è in nostro potere, osserva S. Agostino (In Psalm. CVI), né il principio dell’inclinazione, né la fine dell’abitudine: l’inclinazione c’incatena e ci precipita nel carcere, l’abitudine vi ci lega e chiude sopra di noi la porta per toglierci ogni uscita. Il peccato passato in abitudine diventa quasi identificato coll’uomo: il peccatore abituato è divenuto peccato; e da ciò proviene la difficoltà immensa di vincere le cattive consuetudini.
COME SI CONOSCE SE IL PECCATO SIA ABITUDINE

Grave malattia è l’abitudine di peccare, e chi desidera vedere se egli ne sia infetto deve osservare: Se egli commette il male con piacere; perché ogni piacere è conforme a qualche natura: ora egli è certo che il peccato non ha di per sé stesso questa consonanza colla nostra natura, bisogna perciò che la ripetizione del peccato abbia formato in noi un’altra natura, e questa, seconda natura è l’abitudine… Se pecca senza resistere, perché allora la forza dell’anima è svigorita ed abbattuta…

COME SI LASCIA L’ABITUDINE

I mezzi con cui lasciare e vincere le malvagie abitudini per quanto radicate, sono i seguenti: il timor di Dio; la resistenza…; la preghiera…; il rincrescimento ed il dolore di trovarsi in così infelice stato…; la fuga delle occasioni prossime del peccato d’abitudine…; un vivo orrore del peccato…; frequente ed umile confessione.

“Siete voi combattuti dell’abitudine del peccato? grida S. Agostino, respingetelo da valorosi; non saziatelo ritirandovi, ma sforzatevi d’abbatterlo resistendo” (Lib. de Continent.). Finalmente, una sincera e viva devozione alla Vergine ci fa uscire da qualunque abitudine cattiva.   Padre Cornelio A Lapide

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