Il quinto Comandamento dice: “Non uccidere“, ma se riflettessimo un po’ di più, ci accorgeremmo di quanto siamo lontani dall’essere “in regola” e in accordo con esso.
La questione non è solo personale, ma, in larga scala, si riflette a livello nazionale e internazionale, con pratiche, universalmente riconosciute e avallate, che, per forza di cose e forse intenzionalmente, influenzano le coscienze, spingendole alla ricerca di una serie infinita di giustificazioni private, per disobbedire alle leggi del Signore.
Il quinto Comandamento, ad esempio, è uno dei più espliciti e di immediata comprensione, che non lascia spazio alcuno alle equivoche interpretazioni.
Vuol dire non sopprimere la vita, mai.
“Non uccidere” vuol dire non sottrarre il dono unico e pregiato della vita a nessuno (nemmeno a se stessi); vuol dire, allora, anche non abortire, non proporre o provocare l’eutanasia; vuol dire non impugnare armi (progettando di usarle), in nome di una “giusta guerra” o in difesa della Nazione, contro “un nemico”; vuol dire non adottare la pena di morte.
Non uccidere vuol dire, persino, non oltraggiare la dignità altrui, guidare con prudenza, non ridurre gli altri alla fame o al limite delle possibilità di sopravvivenza.
E le disposizioni della chiesa ribadiscono: “Il ricorso alle armi non provochi mali e disordini più gravi del male da eliminare. (…) Nella valutazione di questa condizione ha un grandissimo peso la potenza dei moderni mezzi di distruzione … spetta al giudizio prudente di coloro che hanno la responsabilità del bene comune”.
Quante volte allora la società uccide, sentendosi quasi autorizzata dalle circostanze, dalle leggi umane, e investita da un potere (invece disumano), che nulla ha a che vedere con Dio, con il rispetto e la fratellanza verso il prossimo?
“Non uccidere” implica relegare la violenza, e gli atteggiamenti che ad essa danno spazio e vigore, ad errori occasionali ed umanamente inevitabili, mai elevarla a mezzo per eliminare chi pensiamo dia problemi.
Antonella Sanicanti
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