Castità: la virtù che oggi fa scandalo | Ecco spiegato il perché

Per la cultura contemporanea non c’è virtù più “scandalosa” della castità. Come tutto ciò che osa ricordare che l’uomo è più di un essere istintuale, sottomesso a passioni accecanti.

La castità sembra una prigione. E invece la Chiesa insegna che è la via per uscire dalla prigione. Più un amore è casto, meno fa dell’altro uno strumento da usare. O peggio ancora, un oggetto da tenere sotto chiave. Per questo, come è stato detto, la castità è paradossalmente la vera «liberazione sessuale».

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«La castità. Nuntereggae più!». Lo cantava (nel 1978) Rino Gaetano. Una vita fa. Ma il cantautore aveva già capito che aria tirava. Sono passati quarantaquattro anni da allora e il clima culturale in cui siamo immersi non è semplicemente ostile alla castità. Macché, sarebbe dire troppo poco. La castità oggi è semplicemente impresentabile. Suona oscena, indecente. Difenderla in pubblico significa esporsi al ridicolo, alla derisione. Perfino dal pulpito i predicatori tentennano. Al giorno d’oggi purezza e integrità (castus significa “puro, integro”), nella migliore delle ipotesi, sono considerate perversioni sessuali.

Come accade, non a caso, nel Mondo Nuovo immaginato da Aldous Huxley, uno stato totalitario dove gli uomini sono controllati (e creati in laboratorio) dalla tecnoscienza, dove non esiste la famiglia e la lussuria è diventata un obbligo di legge. Qui lo Stato (rigorosamente con la maiuscola) fa vivere i suoi cittadini (o meglio i suoi sudditi) in un clima di costante eccitazione. Perché consapevole che esseri umani in preda degli istinti più bassi sono facilmente controllabili. Tutti dunque appaiono come gli ospiti dei gironi danteschi «che la ragion sommettono al talento» (cioè alle passioni disordinate).

Esseri istintuali, incapaci di controllare le loro reazioni emotive, si tramutano in una massa senza identità che può essere manipolata a piacimento. Facendo leva sulle paure ancestrali, ad esempio. Il fear appeal, il ricorso alla paura per governare le masse, spingendole ad agire secondo gli indirizzi del potere, è teorizzato almeno dai tempi di Machiavelli.

«Il clima deve essere surriscaldato fino al punto di ebollizione». È una delle regole d’oro della propaganda. Si trova nelle annotazioni del Diario di Joseph Göbbels (in data 18 settembre 1938). Per un potere totalitario niente di meglio dunque di una società riottosa, priva di mutuo rispetto (e, non a caso, anche di pudore), in uno stato perenne di ebollizione, pronta a esplodere. Chi vuole manipolare gli uomini farà di tutto per lasciarli in balia del pulsionale.

Un documento coraggiosissimo

È il motivo per cui oggi ci vuole un bel coraggio a pubblicare, come ha fatto la Santa Sede, un documento come Itinerari Catecumenali per la vita matrimoniale, a cura del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita. Contiene pensieri assolutamente trasgressivi per la cultura di oggi, parole che suonano davvero come “scandalo e follia”.

Pensieri come questi ad esempio: «Non deve mai mancare il co­raggio alla Chiesa di proporre la preziosa virtù della ca­stità, per quanto ciò sia ormai in diretto contrasto con la mentalità comune». «La castità va presentata come autentica “alleata dell’amore”, non come sua negazione». La virtù della castità, insegna la Chiesa, «è la via privilegiata per imparare a rispettare l’individuali­tà e la dignità dell’altro, senza subordinarlo ai propri desi­deri». E ancora: «La castità insegna ai nubendi, i tempi e i modi dell’a­more vero, delicato e generoso, e prepara all’autentico dono di sé da vivere poi per tutta la vita nel matrimonio».

Il documento cita poi un bellissimo passaggio della Lettera apostolica Patris corde di papa Francesco: «La castità è la libertà dal possesso in tutti gli ambiti della vita. Solo quando un amore è casto, è veramente amore. L’amore che vuole possedere, alla fine diventa sempre pericoloso, imprigiona, soffoca, rende infelici» (n. 57).

Infine la chiusura con vista nientemeno che sulla continenza prematrimoniale, sommo scandalo. La Chiesa parla di «castità vissuta nella continenza» che «facilita la conoscenza reciproca fra i fidanzati, perché evitando che la relazione si fissi sulla strumenta­lizzazione fisica dell’altro».

Inutile dire che i giornaloni mainstream hanno subito chiamato a raccolta i loro teologi à la page – ovvero quelli graditi alla cultura che va per la maggiore – per disinnescare pensieri tanto sovversivi. I quali hanno subito risposto alla chiamata chiamando a loro volta la Chiesa… sul banco degli imputati, ovviamente. Per rispondere di lesa “felicità”. Come si permette la Chiesa di non assecondare il desiderio di essere felici? Si può benissimo essere felici e amare anche infischiandosene della castità, hanno ripetuto in coro.

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La felicità? È un bicchiere da svuotare

Dipende di che felicità parliamo. Perché, come sempre, ci sono etichette ingannevoli. Più che l’etichetta, allora, conta il contenuto della bottiglia. In questo caso del bicchiere. Sì, perché se c’è un’immagine che può aiutarci a capire cosa significhi la parola “felicità” per un cristiano è proprio quella del bicchiere. Quella adoperata dallo psicologo Roberto Marchesini nel suo ultimo libro: La vita è un bicchiere (Sugarco, 2022).

La mentalità comune crede che in amore la felicità sia un bilancio con entrate e uscite. Se il bilancio non è in “attivo”, se le entrate non superano le uscite l’amore “costa” troppo. E dunque fa bancarotta. Per usare l’immagine di Marchesini, se in amore il bicchiere è vuoto son guai. Game over, fine della storia.

Ma non è questa la felicità cristiana, ci spiega Marchesini. Basta pensare all’insegnamento di Gesù: «Vi è più gioia nel dare che nel ricevere!» (At 20, 35). È il paradosso della felicità: la cosa più sensata da fare col nostro bicchiere, più o meno pieno, è offrire da bere a qualcun altro. L’amore è prima di tutto dono.

Ecco, la castità non è altro che andare alla scuola del dono e del sacrificio. Per imparare a essere felici. Perché in amore la felicità è essenzialmente un’uscita, non un’entrata.

Parole, parole, parole… di plastica

Il punto è che l’amore umano, più di ogni altra cosa, va purificato da idoli, fantasie, illusioni. Per non ridursi a essere una di quelle che qualcuno ha chiamato parole “ameba” o di “plastica”. Termini come “amore” o “sessualità” rischiano di non designare nulla di chiaro. Come se fossero infinitamente plasmabili o adattabili a tutto.

La cosa curiosa è che le parole di plastica, pur essendo vaghe, si appiccicano ovunque. Diventano stereotipi inattaccabili. Non hanno contorni chiari ma al tempo stesso si impongono in maniera tirannica. Guai a metterle in discussione! Curioso, no? Non hanno sostanza ma pretendono obbedienza cieca. Chi le adopera si sente importante. Chi si appella all’amore sente di avere tutti i diritti.

Per questo c’è chi ha definito le parole di plastica come idoli in senso biblico: manufatti umani davanti ai quali ci si deve porre in adorazione. Manufatti dell’uomo ai quali attribuiamo un potere superiore al nostro. E che di regola hanno fame e sete. Vogliono sacrifici, vogliono il sangue. Gli idoli divorano gli uomini.

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Un amore capace di trattenere la mano

L’amore-idolo non fa eccezione. «Ci sono forme di amare che sono forme di divorare», avverte il frate domenicano Adrien Candiard. Per quello è indispensabile un «amore casto, l’amore che non mette la mano sull’altro». Amare l’altro per quello che è, non per quello che mi apporta, significa anche trattenere la mano.

Rispettare l’altro è avere ri-guardo (rispetto viene dal latino re-spicere, ri-guardare) per lui. Quando l’amore si mescola alla cupidigia in agguato c’è invece la lupa dantesca, eterno simbolo dell’avidità che «mai non empie la bramosa voglia, e dopo ’l pasto ha più fame che pria».

Amare un’altra persona non è solo aspirare a unirsi a lei, ma anche volere che rimanga quello che è, cioè “altra” da me. Per questo l’amore è una sintesi di unità e differenza, di fusione e distacco. Una tensione che non può mai essere placata.

La castità è al servizio dell’amore. Serve a far maturare il distacco. Senza il quale l’amore diventa un divorarsi a vicenda, non un donarsi reciproco. Perché, come ha scritto Gustave Thibon in uno dei suoi meravigliosi aforismi, «la fedeltà è negata alla cupidigia: non possiamo restar fedeli a quanto abbiamo mangiato e che non esiste più, ma erriamo di preda in preda. Non esiste fedeltà senza distacco; lo stesso amore che mi fa capace di rinunciare al tuo possesso nell’ora della mia bramosia, m’impedirà di ripudiarti nell’ora della mia stanchezza».

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