Il conto delle vittime dell’esplosione nel porto di Beirut, in Libano, purtroppo continua tristemente a salire.
La devastante tragedia avvenuta nell’hangar 12 è stata rinominata “Beirutshima”, e suoi martiri gli shuhada. Le scene struggenti di corpi consegnati ai familiari, quei pochi che hanno avuto il privilegio di non restare dispersi, devastano il cuore e lo spirito di tutti.
La terribile esplosione
Lo studio di un’università britannica ha analizzato il video dell’esplosione e ha parlato di una forza pari a un decimo dell’esplosione nucleare di Hiroshima del 6 agosto 1945. La lista delle vittime si allunga ora dopo ora, e al momento è salita a 157 morti e 5000 feriti. Si parla di 8 tonnellate di aiuti dall’Italia, 5 milioni di sterline da Londra.
Il presidente francese Emmanuel Macron ha visitato i quartieri di Gemmayze e Mar Mikhail, è il primo capo di stato a recarsi nel Paese. Il presidente francese ha invitato i leader dei principali partiti politici libanesi a stipulare “un nuovo patto politico” al fine di evitare il tracollo dello Stato libanese.
L’allestimento dell’ospedale da campo
In poco tempo è stato allestito un ospedale da campo in città, ma a breve dovranno sorgerne altri cinque. In poche ore la popolazione ha iniziato la sua fuga dalla città. Nel tardo pomeriggio alcuni dei feriti sono stati ricoverati nel primo ospedale da campo, che è stato organizzato nello Stadio Nazionale Camille Chamoun.
In questo caso è stata la Russia a finanziare la struttura, che dispone di circa centocinquanta posti letto, oltre ad inviare i suoi medici. I prossimi ospedale dovranno essere aperti, secondo le parole del consulente del ministro della Salute, con i fondi di Marocco, Iran, Giordania e Qatar.
La disperata ricerca delle vittime
Molte vittime, purtroppo, non hanno ancora avuto alcun testimone che le abbiano potute riconoscere. Per molti, il ricordo dei diciassettemila desaparecidos della guerra civile avuta tra il 1975 e il 1990 si fa vivido.
Le ricerche proseguono incessantemente in queste ore, tra il fumo dei silos e il cratere sottostante alla detonazione, che ha inghiottito sabbia, detriti, cemento e terra. Il quartiere di Karantina è stato quello che ha pagato maggiormente l’esplosione, un quartiere di famiglie povere del sottoproletariato urbano.
L’area conosciuta per i tassi di inquinamento
Un’area ben conosciuta per gli alti tassi di inquinamento, luogo in cui da anni è posizionato un impianto gigante per il trattamento dei rifiuti. Tra questi detriti si continua a scavare e a cercare, sperando di trovare i resti di persone senza vita. Le vittime sono in gran parte impiegati del porto o addetti ai trasporti.
Nel frattempo si scatenano le polemiche politiche. Nella piazza dei martiri, nel pieno centro cittadino di Beirut, si è anche registrata una dura protesta, con toni moderati ma con grande afflusso. La folla ha intonato le parole: “Il popolo vuole rovesciare il sistema”. Si tratta di un coro divenuto famoso durante le primavere arabe del 2011.
Le proteste dei manifestanti
I manifestanti hanno marciato vicino alla moschea Al Amin e alla Cattedrale di Saint George, per arrivare fino alla sede del governo libanese. Qualche vetrina rotta, uno scontro con le forze armate, che stavano patteggiando le strade dopo la dichiarazione di emergenza. Per strada, si vedono stand di distribuzione di pasti gratuiti e raccolte di fondi e medicinali.
Le stime diffuse dal governatore di Beirut, Marwan Abboud, parlano di trecentomila sfollati. Numeri enormi di persone rimaste senza un tetto sopra la testa, e che sono costretti a caricare il necessario sulle loro automobili, tenute con le luci accese, e per chi può raggiungere un’abitazione secondaria magari fuori da Beirut.
Le ipotesi sullo sfondo
Sullo sfondo, tuttavia, resta il fitto mistero del magazzino da cui è partito il primo rogo. Israele ha ipotizzato un utilizzo da parte di Hezbollah, mentre invece fonti di intelligence raccolte da Tgcom24 parlano di un commando sciita, che ha agito in complicità con i lavoratori del porto.
Secondo questi, una fazione sciita libanese avrebbe organizzato l’attacco per poi rifugiarsi nel Sud del paese. Quella di un attentato o di un atto volontario resta però al momento soltanto un’ipotesi. Esclusa dal segretario alla Difesa statunitense, Mark Esper, dopo che in un primo momento il presidente degli Stati Uniti Donald Trump aveva parlato di un attacco.
Giovanni Bernardi