Un giorno poi vennero dei camion, ci hanno portato a Modena nei vagoni, rinchiusi con donne, bambini, vecchi, dottori, avvocati, di alto e basso ceto, tutti insieme. Ogni vagone c’era un fascista di dietro e le SS davanti ai vagoni che davano ordini. Quando si arrivava nelle pianure aprivano gli sportelli e dovevamo fare i nostri bisogni sotto i binari dei vagoni, sotto il sorriso e le angherie dei fascisti e qualcuno che diceva: “Se volevate scappare scappate, così facciamo il tirassegno”. Una cosa vergognosa per noi fare i nostri bisogni vicino a donne, uomini, alla meglio, come potevamo. Non c’era altra soluzione. E si riprende il cammino per giorni, quattro, cinque, sei giorni.
Entrati in Austria ci hanno fermato, ci dettero un latte, delle crocerossine, con del semolino caldo. Quello fu un ristoro che insomma, si poteva accettare, dopo tanti giorni dentro ai vagoni chiusi.
Ci dissero di entrare dentro ad un posto dove c’era scritto Waschraum, bagno, ma non sapevamo che quel bagno era a doppio uso. Lì cominciarono prima a rasarci da tutte le parti del corpo, dopo fare il bagno con acqua bollente e acqua gelata. Appena fuori ci fecero il numero sul braccio a ciascuno di noi. Io divenni il numero 180098. Da lì avevamo un numero e un’etichetta sopra ogni vestito con la stella di Davide. Sulla stella, vicino, vi era il numero che noi portavamo sopra il braccio. Dopo aver fatto la quarantena fui messo al servizio interno del campo, portando contenitori, da mangiare.
Al campo le prime botte con malvagità le ebbi da un kapò perché scendendo dalle scale voleva che andavo più svelto. Così dopo alcuni giorni, qualche mese, ci trasferirono. Mi separai da mio zio ad Auschwitz, non lo rividi più. Con i camion ci portarono a una certa distanza da Auschwitz, a Sosnowitz. Qui a Sosnowitz abbiamo passato le più brutte giornate. Ci facevano lavorare notte e giorno in una fabbrica bellica dove si costruivano delle granate per bombe. La mattina quando si usciva dal campo dovevamo cantare gli inni nazisti, se qualcuno non cantava veniva tempestato di percosse. Così all’entrata e così all’uscita.
Diverse soste abbiamo fatto: una volta mi ricordo a una scuola, dei banchetti, di notte, come scolari. Sempre guardati. Un’altra volta un teatro, un’altra volta in una fattoria, un’altra volta in un mattatoio. Arrivammo in una città. Qui siamo ancora rimontati sopra dei vagoni bestiame e rinchiusi dentro, 40, 50 persone che ci battevamo uno con l’altro per stare più larghi.
Un giorno un grande bombardamento ci prese in pieno sulle rotaie dei nostri vagoni, balzavamo da una parte all’altra e pregavamo Dio che qualche bomba cadesse sopra di noi per farla finita con questa vita. Arrivammo a Mauthausen. Aperti i vagoni molti compagni nostri erano rimasti lì morti in quella stazione. Così vidi anche il mio compagno di scuola Davide Moscati, che non ebbe più la forza di rialzarsi.
Un giorno potei anche rivedere il mio amico, Teo Ducci, di Firenze, che serviva al meglio chiunque poteva avere bisogno delle sue cure come infermiere. Poi un altro giorno ebbi una grande bastonata sulla gamba sinistra e mi venne una grande suppurazione sulla gamba. Lì c’era il dottor Calore di Milano. Il dottor Calore era un grande chirurgo che era stato deportato per politica e mi disse che se volevo salvare la gamba bisognava fare un intervento. Mi tagliò alla meglio come poteva, e mi levò tutto quel pus che era nella gamba, che mi si era talmente gonfiata che non ce la facevo a tenerla. Poi incontrai un altro amico, Angelo Salmoni. Mi si abbraccicò e diceva che ormai gli americani stavano vicini. Un giorno -rammento la dissenteria- trovai un pezzo di carbone per potermi mangiare questo carbone da stufa per stringermi la dissenteria. Ma un kapò mi ha visto, mi ha dato tante di quelle bastonate e mi ha portato fuori dicendomi “Morgen Krematorium”; domani mattina al crematorio. Invece non so come è stato che il sabato, lo ricordo proprio come un sogno, sentii degli strilli, dei canti: “Americani, americani!”.
Gli americani subito ci dettero medicinali, viveri, amore e senso di solidarietà. Eravamo ridotti in pochi; tanti dei nostri erano morti in quella sorte maledetta e i vivi assomigliano a morti. Così dopo poco tempo a Gusen ci trasferimmo un’altra volta a Mauthausen. Qui incontrai un mio amico, Vito, che aveva paura di abbraccicarmi. Come dire: che, abbraccico un morto che cammina? Mi portò dentro una baracca e mi rividi con i miei compagni: Alberto Mieli, Giacomo Moscati e Raimondo.
Il mio cervello era ridotto come quello di un bambino, raccoglievo delle cose inutili per terra, con una sacchetta. Anzi, a Raimondo gli detti un vasetto e gli disse che era bello e lo doveva regalare alla sua fidanzata quando ritornava.