Una premessa è d’obbligo, altrimenti è facile fraintendere o far finta di non capire. Cherif e Said Kouachi, i due ragazzi di origini algerine autori della strage presso la redazione di Charlie Hebdo a Parigi, hanno compiuto un delitto orribile senza giustificazione alcuna.
E così hanno attraversato un mercoledì di assoluta libertà. Un giorno in cui hanno ritenuto di potersi armare, salire su un auto e attraversare Parigi ad una velocità folle. Sono arrivati in rue Rue Nicolas Appert ed erano ancora due uomini liberi; hanno fermato una ragazza e, minacciandola, sono riusciti ad entrare nell’edificio della redazione, sparando e uccidendo undici persone. Ecco, da quel momento la loro libertà è come svanita. Potevano solo fuggire, andare via. Fuggendo hanno ucciso ancora. I due ragazzi erano responsabili verso sé stessi e le loro stesse vite. Su questo si può dire poco: il nostro punto di vista non coincide con il loro. Ma non erano responsabili solo di questo: erano i custodi della vita degli altri ed hanno ritenuto che questa non valesse, non abbastanza. Erano inoltre responsabili nei confronti dei loro fratelli musulmani, che pagheranno a caro prezzo il dolore e l’odio suscitato dalle loro azioni.
Cherif e Said sono colpevoli di aver deliberatamente violato tutti questi limiti. Dovremmo allora mostrare la nostra commossa ammirazione verso Charlie Hebdo e alzare simbolicamente una matita verso il cielo, come le migliaia di manifestanti in questi giorni. Ma non possiamo farlo. Perché non sono stati solo Cherif e Said Kouachi a oltrepassare ogni limite. I due ragazzi, in realtà, sono stato preceduti da un cattivo esempio, nascosto tra mille reticenze ed equivoci: quello di Charlie Hebdo che, prima di Cherif e Said Kouachi, come loro, ha superato ogni limite. La rivista francese ha fatto della provocazione la propria ragion d’essere. E fino a qui niente di male. Si può ritenere che la provocazione sia il sale dell’intelletto, se non proprio della terra. Ma Charlie Hebdo non si è limitato a questo esercizio d’intelligenza; lo ha oltrepassato spingendo il proprio umorismo verso la dissacrazione fine a sé stessa. Non è bastato: la rivista è scivolata verso la desacralizzazione. E anche questo limite è stato superato. Charlie Hebdo ha lasciato aperta la propria porta a quell’antichissima forma di demenza che è la blasfemia.
La stupidità cede presto il passo all’ipocrisia di chi pone le proprie offese nel fiume della libertà: un’acqua sporca, ormai, buona per sciacquare tutti i panni. Una parola ridotta ad alibi, la libertà, chiamata a fare da palo mentre, in suo nome, si crede di poter entrare nel mondo degli altri e farne scempio. Charlie Hebdo ha creduto di poter dire qualsiasi cosa in nome della libertà: ma spesso, troppo spesso, ha parlato perché ormai trascinato da un cuore e una matita senza freni.
Questo era Charlie: la libertà di uccidere la libertà religiosa altrui, usando la punta affilata di una matita come l’ascia di un Boia con un condannato a morte; la libertà di offendere tutti indistintamente e credendo così di fare esercizio di democrazia. In realtà il danno provocato dalla loro mancanza di limiti feriva senza limite con l’arbitrio di un tiranno. Se si è ingiusti verso tutti non si diventa democratici: si diventa dieci volte ingiusti. “Ne uccide più la penna che la spada” diceva un vecchio adagio e Charlie sembrava compiacersene. Una matita al posto di Dio e un’ingiuria per tutti nessuno escluso.
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