Molti ignorano, forse, che, in realtà, la modifica fu apportata da Papa Benedetto XVI e già nel 2008. Monsignor Giuseppe Betori, all’epoca segretario della CEI, spiegò: “La scelta del Consiglio permanente è stata quella di intervenire solo dove fosse assolutamente necessario, per la correttezza della traduzione”.
“Nel caso del Padre nostro, si è affermata l’idea che fosse ormai urgente correggere il “non indurre”, inteso ormai comunemente in italiano come “non costringere”. L’ inducere latino (o l’ eisfèrein greco), infatti, non indica “costringere”, ma “guidare verso”, “guidare in”, “introdurre dentro” e non ha quella connotazione di obbligatorietà e di costrizione che invece ha assunto nel parlare italiano il verbo “indurre”, proiettandolo all’interno dell’attuale formulazione del Padre nostro e dando a Dio una responsabilità – nel “costringerci” alla tentazione – che non è teologicamente fondata. Ecco allora che si è scelta la traduzione “non abbandonarci alla” che ha una doppia valenza: “non lasciare che noi entriamo dentro la tentazione”, ma anche “non lasciarci soli quando siamo dentro la tentazione”.”.
La modifica, infatti, riguarderà un solo vocabolo e non pare così grave, se si pensa che il testo del Padre nostro, che leggiamo nella Sacra Scrittura, è comunque una tradizione, tratta da un’antica lingua.
Sicuri che chi lo tradusse, o chi lo ispirò, non volesse certo alludere al fatto che fosse Dio a portarci ad essere tentati dal male -il che è teologicamente impossibile, ma anche insensato, in quanto Dio è il Sommo Bene e non può certo ingannare i suoi figli- sembra più che opportuno, oggi, rendere il testo chiaro a tutti.
Allora Bergoglio era solo -si fa per dire- un Arcivescovo argentino. Ora -gli stessi probabilmente- dicono a gran voce: “Con quale improntitudine si osa manomettere un testo vecchio di duemila anni? In Germania, contro la nuova traduzione, sostenuta da Bergoglio, hanno obiettato pure gli atei!”.
Ma la frase incriminata è “non abbandonarci alla tentazione”, al posto di “non indurci in tentazione” e chi ne conosce bene il significato (o chi conosce, per lo meno, il significato della lingua italiana), non ha motivo di replicare.
Del resto, anche un’antica, quanto anonima, riflessione, che spesso troviamo scritta nei Monasteri e in altri luoghi sacri, ci esplicita come, e con quale spirito soprattutto, si debba recitare il Padre nostro.
Eccola a voi, nella sua versione integrale, per permettervi di comprendere a pieno l’infondatezza delle critiche dell’ultima ora:
Ora, se abbiamo ben compreso il senso di questa revisione del Padre nostro, c’è una sola obiezione possibile, che riguarda lo studio mnemonico della preghiera.
Antonella Sanicanti
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