È morto nell’indifferenza generale l’ex maresciallo dell’Esercito italiano Marco Diana, diventato simbolo nella battaglia contro l’uranio impoverito.
Diana aveva cinquant’anni ed era malato da tempo, si è spento mercoledì a Cagliari, in una stanza del Policlinico universitario di Monserrato. Era infatti ricoverato da diversi giorni per il decorrere della malattia. L’ex generale era originario di Villamassargia, nel sud della Sardegna.
L’uomo si ammalò di tumore a causa dell’uranio impoverito
Dopo essere stato impegnato per oltre dieci in anni in missioni sparse nella varie aree calde del pianeta, dalla Somalia al Kosovo, era diventato sottufficiale dell’esercito. Tornato in Italia dopo la sua missione in Somalia, nel 1993, scoprì di avere contratto il terribile male. Fu l’inizio di un lungo calvario. L’uranio impoverito, già all’origine di molte vittime tra i soldati, aveva infatti provocato un tumore al sistema linfatico.
Diana aveva sempre combattuto fino all’ultimo, con onore e coraggio, la sua malattia. Per anni era riuscito a contenerla. La beffa però, oltre al danno, arrivò dopo avere scoperto che le istituzioni non avevano intenzione di riconoscere i danni dovuti a una causa di servizio.
Lo Stato non riconosceva al giovane ciò di cui aveva diritto
Alla fine fu la Corte dei conti a riconoscere la causa di servizio, con il relativo diritto alla pensione di prima categoria con risarcimento. Ma ancora non era finita e dovette combattere a lungo la sua lotta contro la burocrazia. In numerose occasioni confidò pubblicamente che si sentiva abbandonato dallo Stato.
Le istituzioni non sembravano capaci di riconoscergli ciò di cui aveva diritto. Cominciò così una lunga battaglia. L’obiettivo era quello di ricercare la verità a proposito delle malattie che i soldati italiani hanno riportato a casa durante le loro missioni all’estero. La sua era una ricerca di verità, la stessa che gli venne sottratta per anni.
Per le cure dovette vendersi la casa
Nei suoi racconti, spiegò la mancanza di protezione per i soldati italiani. In missione a Mogadiscio, facendo il confronto con l’equipaggiamento americano, raccontò: “I missili sparati dai loro elicotteri sollevavano enormi nuvole di polvere bianca. Quella polvere ci avvolgeva e noi la respiravamo. Sembravano dei marziani, mentre noi stavamo in maglietta e calzoncini, esposti a tutte quelle strane polveri”.
Nel frattempo, furono molti i tentativi che mise in atto per guarire, tanto da dover arrivare a vendere la casa per pagarsi le cure. In rete era così sorta l’idea di mettere in atto alcune raccolte di fondi. Non bastasse, però, i carabinieri avviarono un’indagine nei suoi confronti.
Le raccolte fondi vennero bloccate
L’accusa era quella di truffa, ovvero di avere messo in evidenza, in maniera intenzionale, il suo stato di salute. Al fine di impietosire le persone che avrebbero dovuto partecipare alla racconta.
Così dovette interrompere anche la sua raccolta fondi, mentre il tumore lo stava uccidendo. Ogni giorno la salute peggiorava, e le istituzioni non hanno in fondo mai smesso di remargli contro. Oggi Marco è passato a miglior vita. Ciò che resta è lo sdegno e la vergogna per uno Stato che non ha garantito alcuna protezione a un suo cittadino, a un suo soldato, che ha dato la vita per lottare sul campo.
Dopo la morte, resta la frustrazione per le sue battaglie
Resta solo la rabbia e la frustrazione, e il ricordo di un uomo che ha lottato contro Golia. Il suo volto e l’impegno nella controversia le istituzioni, che Marco accusava di esporre i militari italiani a sostanze cancerogene, furono di stimolo per decine di altri soldati arruolati che vivevano il suo stesso inferno. La sua voce però, oggi, testimonia che il secondo ha perso. “Non è una lotta personale, ma è quella di tutti i servitori dello Stato che si sono ammalati nell’assolvere il loro dovere“, disse.
Pace all’anima di questo ragazzo, passato a miglior vita dopo avere lottato per una causa giusta.
Giovanni Bernardi