L’esempio di amore di sei suore che non scappano di fronte al virus mortale

L’amore per Cristo e per coloro che stavano assistendo, non le fa scappar via davanti a un nemico sconosciuto. Sei suore eroine.

suore delle poverelle
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Loro, suore della Congregazione delle Poverelle di Bergamo, non esitarono a continuare la loro missione nell’assistenza ai malati di Ebola, anche a sacrificio della loro vita. La Chiesa ha riconosciuto le loro virtù eroiche e, per questo, annuncia la loro beatificazione.

Sei suore missionarie, eroine della Chiesa

Una vera e propria sorgente di santità quelle che è scaturita da sei suore missionarie in Centro Africa, che hanno continuato ad assistere i malati contagiati da quello che, allora, era ancora un virus sconosciuto: l’Ebola. Sei suore missionarie della congregazione delle Poverelle di Bergamo, continuarono la loro missione anche a costo della loro stessa vita.

Il tutto è partito da un’epidemia devastante che sconvolse la città congolese di Kikwit: era il 15 marzo 1995. Le suore erano lì, in missione, ad assistere i poveri e gli ammalati. La santità si vedrà ancor di più in questo momento difficile.

La Chiesa ha riconosciuto le virtù eroiche di tre (suor Floralba Rondi, suor Clarangela Ghilardi e suor Dinarosa Belleri) delle sei suore (in questa tragedia morirono anche suor Danielangela Sorti, suor Annelvira Ossoli e suor Vitarosa Zorza) dell’ordine di Bergamo. Tutte hanno dato testimonianza d’amore, di comunione, di sacrificio, ma soprattutto di non abbandonare il luogo dove Dio le aveva destinate.

Loro, come tutti quelli che vivevano lì, erano minacciate dal virus Ebola, allora sconosciuto, che aveva contaminato tutta la loro missione. Ma si comportarono come il loro fondatore, il beato Luigi Maria Palazzolo, aveva sempre raccomandato: “Laddove altri non giunge, faccio qualcosa io come posso”. Non si sono allontanate, hanno continuato il loro ministero di carità davanti anche ad una immane tragedia.

1995: quando il virus Ebola iniziò il contagio

Quel 15 marzo tutto iniziò quando un uomo tornò a casa febbricitante dopo aver trascorso una giornata di lavoro nei campi, nei pressi di un villaggio a poca distanza dalla comunità dove vivevano le religiose. Dieci giorni dopo morì, dissanguato da un male misterioso. La stessa sorte toccò a suo figlio, a suo fratello e ad altri famigliari.

Un male sconosciuto che, nel giro di poche settimane riempì tutto l’ospedale di Kikwit di moribondi. Suor Floralba fu la prima missionaria ad essere contagiata e la prima a morire, ammalatasi proprio mentre assisteva un paziente in gravi condizioni, come hanno raccontato le sue consorelle.

Suor Vitarosa fu l’ultima tra le religiose a spirare. Nel diario della comunità si legge che fu proprio lei “ad assistere le consorelle contagiate fino alla fine e le raggiunse in cielo, nella Casa del Padre, il 28 maggio, festa dell’Ascensione”.

Un virus e le sue conseguenze che i medici individuarono, grazie anche alla consulenza degli esperti del Centers of disease control and prevention di Atlanta (CDC): la diffusione dell’Ebola era favorita dall’usanza locale di toccare le salme durante i riti funebri. Per questo fu emanato uno speciale protocollo che imponeva di avvolgere i cadaveri nella plastica e di gettarli in fosse comuni per evitare il contagio.

Le parole di elogio, per le suore eroiche, da parte dei medici

Parole di elogio sono arrivate direttamente da alcuni ricercatori americani che, per primi, stavano indagando sul virus dell’Ebola, per le sei suore missionarie decedute a Kikwit. Uno di loro, in particolare, che era stato inviato nella città a seguire l’emergenza sanitaria, disse: “Quelle donne, con la loro testimonianza, hanno fatto quello che in quel momento nessuno sarebbe stato capace di fare: salvare vite umane con il vaccino dell’amore!”.

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Una testimonianza viva e vera ancora oggi. La Chiesa ha riconosciuto il sacrificio dei queste missionarie che non hanno esitato ad assistere gli ammalati fino all’ultimo, seguendo anche le parole di Papa Francesco nel suo magistero: “I poveri sono la carne di Cristo”.

Fonte: avvenire

ROSALIA GIGLIANO

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