La testimonianza di Rabee, una delle vittime della guerra in Siria salvo per miracolo

La guerra in Siria viene raccontata come un gioco di poteri forti in cui le super potenze occidentali si combattono appoggiando due fazioni avverse che condividono l’obiettivo comune di eliminare le forze dello ‘Stato Islamico’ e prendere il controllo del paese. Ma la guerra in Siria è soprattutto fatta di storie di vita comune, di civili che in questo gioco di potere hanno trovato solo paura, fame e morte.

Tra le tante vittime innocenti della guerra c’è pure un ragazzo il cui unico sogno era quello di laurearsi e diventare un professionista. Un obbiettivo di vita che per noi occidentali non è nulla di irraggiungibile, ma che per lui diventa giorno dopo giorno sempre più una chimera. Rabee Zarife a soli quindici anni ha perso l’uso delle gambe a causa di un mortaio e in quella stessa esplosione ha scoperto cosa vuol dire perdere il padre (morto proprio accanto a lui).

Ciò nonostante il suo obbiettivo di vita non è cambiato, ovvero mantenere la promessa fatta ai genitori prima che morissero a causa della guerra: prendere il diploma ed iscriversi all’università. Ad aiutarlo a realizzare questo suo sogno ci sono i volontari della Caritas che si occupano di pagargli le spese mediche e di offrigli il supporto psicologico necessario a superare il terribile trauma che lo ha colpito lo scorso novembre.

Rabee è stato intervistato dai ragazzi della Caritas che, successivamente, hanno condiviso l’intervista come testimonianza degli orrori della guerra.

La prima cosa che gli viene chiesta è di raccontare la sua vita prima dello scoppio della guerra: “Ho sempre vissuto nel mio villaggio, chiamato Rihan, a nord di Damasco. La famiglia di mio padre possedeva un’azienda agricola. Trascorrevo il mio tempo correndo e giocando con i miei fratelli e cugini, per tutto il giorno. Ogni tanto aiutavo anche mio padre a coltivare la terra e nella sua piccola officina specializzata nella riparazione di automobili. La nostra era una vita semplice, ma meravigliosa al tempo stesso”.

Quindi è arrivata la guerra e quella vita meravigliosa è diventata un incubo senza fine. Il ragazzo non si sa spiegare le motivazioni del conflitto, sa solo che gli ha tolto la possibilità di vivere una vita normale: “Questa guerra ci ha costretto ad abbandonare le nostre case e i nostri villaggi, senza poter nemmeno portare con noi le nostre cose. Un giorno, mentre mia madre stava cucinando, mio padre è tornato a casa all’improvviso e le ha chiesto di fare i bagagli in tutta fretta, perché i gruppi armati stavano per entrare nel nostro villaggio e dovevano fuggire immediatamente, prima che la strada fosse interrotta”.

Il padre ha cercato di salvarli, ma è stato il primo ad andarsene a causa di una bomba, di lui Rabee racconta: “Mio padre era un gran lavoratore e un uomo molto coraggioso. Egli non ha mai perso la speranza. Dopo un po’ è riuscito a prendere in affitto un piccolo negozio nel quartiere di Abbasying, a Damasco, per guadagnare un po’ di denaro per la nostra sopravvivenza”. Quella esplosione è la stessa che gli ha tolto la possibilità di camminare, un dolore grandissimo a cui il ragazzo non sa dare una spiegazione: ”Ho fatto quello che mi ha chiesto e sono uscito dalla vettura, mentre mio padre stava uscendo dall’officina, quando all’improvviso è esploso un colpo di mortaio. Mi sono ritrovato a terra, con un dolore fortissimo, senza sapere nemmeno quello che era successo”.

Rabee, infine, parla del suo desiderio di terminare gli studi, un desiderio che nasce dalla promessa fatta prima dello scoppio della guerra al padre. Per quanto riguarda il dopo, il futuro è un grosso punto interrogativo che potrà essere risolto solamente se la guerra finirà. Ed è proprio questa l’unica speranza che l’adolescente affida alla clemenza delle super potenze: “Mettete fine alla guerra nel mio Paese, fermate le uccisioni e gli spargimenti di sangue, smettetela di ferire persone innocenti”.

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