La peggiore violenza sulle donne di cui non si parla
Da giorni, in occasione della giornata internazionale contro la violenza sulle donne, sui mass media soprattutto sul web, circolano articoli, video, foto con volti noti e non, col simbolo rosso che connota l’adesione a questa grande campagna di sensibilizzazione a difesa della donna.
E’ bello vedere tanta mobilitazione da parte di chi ha espresso sinceramente il suo sostegno credendoci davvero nel nobile intento di questa manifestazione. Ma ciò che ci fanno vedere è il vero intento o è solo apparente?
L’obiettivo è aiutare le donne?
Se l’obiettivo è aiutare le donne che vivono il dramma di una violenza, in casa, al lavoro, per strada; aiutare le donne affinché non vengano discriminate in alcun modo; aiutare le donne a riconoscere la differenza tra una relazione sbagliata e una relazione d’amore, allora perché le istituzioni che hanno promosso questa giornata rispettabilissima, se davvero hanno a cuore le donne, hanno boicottato una campagna di sensibilizzazione altrettanto lodevole che voleva aiutarle a riconoscere la differenza che c’è tra la reale condizione del loro bambino all’11 settimana di gravidanza e un cumulo di cellule che non è?
(Vedi il caso dei manifesti Pro Vita censurati in varie città d’Italia con la sola colpa di aver mostrato attraverso una tenerissima immagine la verità biologica di come appunto eravamo tutti noi all’11 settimana di vita nella pancia di nostra madre: bambini ben formati con tutti gli organi presenti, il battito del cuore già dalla terza settimana del concepimento, il ditino in bocca, e ricordandoci che se oggi siamo qui è perché le nostre mamme non ci hanno abortito)
Non è forse un diritto della donna conoscere le fasi di sviluppo biologico del bambino che porta nel grembo e se proprio secondo qualcuno deve deciderne la sorte almeno farlo consapevolmente? O è più comodo ingannarla facendole credere che non c’è vita nel suo grembo, come alcuni vogliono inculcarle, così che possa abortire più facilmente?
Diritto a essere informate
Non è diritto di una donna essere informata in maniera corretta e onesta sui rischi e le conseguenze dell’aborto per la sua salute fisica e psichica?
Come per esempio infertilità futura, emorragie, necessità di trasfusioni di sangue, e nei casi più gravi asportazione dell’utero, rischio di perforazione uterina con danni agli organi vicini, in particolare vescica e intestino, aumenti di rischio di cancro al seno, depressione e ansia, tutte conseguenze confermate da ampi studi medici che non vengono diffusi ma sono consultabili da chiunque.
Una società che sta davvero dalla parte delle donne e le rispetta non può accettare che venga loro negata la possibilità di essere informate e aiutate.
Donne ferite nell’anima
Ho parlato con donne ingannate che hanno abortito perché nessuno ha detto loro a cosa andavano incontro, perché nessuno ha teso loro una mano, e quella ferita sanguina dentro di loro e non si rimargina dicendo “era un tuo diritto”.
Quella ferita fa male e non dà pace, non si perdonano, e quante volte ho sentito dire “se qualcuno mi avesse aiutato, se mi avesse detto cos’è davvero l’aborto e le sue conseguenze”
Il simbolo rosso che in questi giorni abbiamo visto su tanti volti e richiama l’attenzione alle conseguenze di una violenza, non contempla la ferita che una donna porta dentro di se a causa dell’aborto, questa ferita non è degna del simbolo rosso sul volto?
Dalla parte delle donne
Una società che davvero ama le donne deve tutelarle su tutti i fronti, anche sull’aborto affinché sia sempre garantita loro la possibilità di percorrere tutte le strade alternative possibili per evitare che soffrano.
L’intento reale di questa manifestazione è ben altro da ciò che ci fanno intendere ed è evidente che invece di aiutare gli uomini e le donne a sostenersi gli uni con le altre, a scoprire la bellezza della loro complementarietà nel rispetto reciproco della loro diversità, si stanno alimentando ostilità, diffidenza e distanza tra loro, che li portano lontani dalla vocazione per cui sono stati creati e nel non riconoscersi più si auto condannano all’infelicità.
Simona Amabene