Il Vero Dio che è Nascosto nel Calcio che Non Tutti Riescono a Vedere…

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C’è un momento che ci dice molto del calcio e, per molti aspetti, rappresenta l’immagine stessa del calcio. E’ l’attimo in cui Diego Maradona allo stadio Azteca di Città del Messico vince un contrasto a metà campo, si gira su se stesso e corre verso la porta avversaria. Un prodigio di tecnica, velocità, intuizione, tempismo. Un miracolo. E tutto avviene sotto una luce strana, bianca, quasi accentate che sembra cadere dritta dall’alto una luce che sembra abbia deciso  di illuminare la scena in modo indelebile. Quando osserviamo quel gol ci fermiamo qui, perché ci basta. E’ tutto lì, il calcio, e riassume la passione senza freni, incondizionata, la devozione che questo sport suscita. Ma quel momento, già incancellabile, potrebbe toccarci il cuore ancora più profondamente e spiegarci qualcosa che va oltre l’immagine di un campione straordinario nell’attimo culminante della sua parabola agonistica, se guardassimo alle spalle di Diego. Dietro di lui c’è un ragazzino poverissimo, che vive in una dimora di Lanus, un sobborgo di Buenos Aires. Una casa che poteva dirsi tale solo perché lui, i suoi genitori e fratelli la abitavano. Quattro mura, un cancello fatto di fil di ferro. Un giovanissimo Diego, già promessa del calcio argentino, viene intervistato e ad un tratto dice “Nella mia vita ho due sogni: il primo è giocare il Mondiale. Il secondo è vincerlo”. Quel filmato è visibile ancora oggi. Pochi secondi in bianco e nero, struggenti dove c’è tutto: la povertà disperata di un bambino argentino, come mille altri, e la sua preghiera. Perché Diego Maradona in quel momento stava pregando, inconsapevolmente. Pregava Dio perché lo portasse via da quel sobborgo, da quella disperazione. Gli affidava il suo cuore, Diego, e sembrava dire “Signore, tu sai tutto”. Ecco allora che se ci ricordiamo di quelle parola, l’immagine straordinaria dell’Azteca e quella luce ci sembrano molto di più di un gesto tecnico unico: è una preghiera esaudita. E’ come se Dio avesse ascoltato il piccolo Diego e gli avesse dato appuntamento sul verde smeraldo di quel campo. In quella stessa partita il campione argentino segnerà ancora, in maniera canagliesca e guascona. Un peccato di presunzione che rappresenta il rovescio della medaglia dell’uomo: un gol di mano, irregolare, un rapido momento di astuzia. Lui commenterà l’episodio a modo suo, con l’irriverenza sarcastica che lo contraddistingue. “E’ stata la mano di Dio” dirà, dimenticando per un attimo il bambino che fu. Senza accorgersi, forse, che la mano di Dio era veramente su di lui, quel giorno. Un altro ragazzino di tredici anni ha avuto il cuore pieno di desideri e colmo della paura di non farcela. Si chiamava Lionel, argentino anche lui, e come il giovane Diego conosceva la povertà. Ha talento da vendere ma il fisico sembra dirgli no. Lionel non cresce, i suoi sogni rischiano di rotolare da una parte e il pallone dall’altra. La sua vita sembrava fermarsi lì, nei giorni in cui le preghiere di un bambino diventano tutt’uno con il suo cuore. E anche le preghiere di Lionel vengono ascoltate. Dio ascolta i bambini, forse perché ha il cuore di un bambino. Lionel inizia a crescere, il fisico risponde. il ragazzino corre, segna e diventa il campione che è. I bambini crescono diventano uomini, cadono si rialzano, dimenticano le loro preghiere. Ma noi sappiamo, anche quando loro dimenticano o sembrano distanti dal loro stesso cuore, da dove vengono e chi sono, in realtà. Sono parte della nostra vita. Il dono straordinario che il calcio può farci è un dono che noi facciamo a noi stessi, nella consapevolezza. E’il comprendere che dietro un campione, i gesti tecnici, la sua fortuna c’è una preghiera esaudita, il dialogo di un uomo qualsiasi, con Dio. La sua fortuna sportiva è la gioia per i nostri occhi, ma prima di ogni gol,c’è una storia personale che dobbiamo comprendere. Sapere questo è un antidoto potentissimo che ci aiuta a vivere il calcio con occhi diversi, pieni di stupore e riconoscenza. La fede calcistica diventa così un piccolo sentiero che ci conduce ad una fede più grande e non ci distoglie da essa. E vedere un gesto tecnico, una corsa, un gol ci svelano un miracolo, non solo tecnico. Il miracolo di un uomo che corre in un campo ma che ogni giorno, come tutti, cammina con Dio.

Quello stesso Dio che rischia di essere sempre più dimenticato e proprio nel momento in cui la Sua grazia si compie. La fortuna dei campioni da noi idolatrati, la ricchezza che ostentano, il successo, le belle donne: lo stile della loro vita contribuisce a macchiare e confonderci; chiude i nostri occhi e svia il nostro cuore. Non vediamo più la presenza di Dio, il dono: svendiamo la nostra fede per un gol, incapaci di vedere il miracolo che ogni giorno si compie nella nostra vita e di gioirne come sotto quella luce, sull’erba verde dell’Azteca.

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