Ormai nella fase 2 da Coronavirus, siamo in grado di catalogare gli italiani, a seconda di come hanno vissuto il terribile periodo delle restrizioni e la successiva “liberazione”.
Il Coronavirus, infatti, ha suscitato le più disparate reazioni. Moltissimi, dopo il lockdown, si sono sentiti liberati dal “carcere” della propria abitazione e si sono riversati fuori, per svolgere attività che prima snobbavano o evitavano costantemente di compiere. Ce lo fa notare anche il Presidente della Sip, Società italiana di Psichiatria, il dottor Massimo di Giannantonio. “Una massa di milioni di persone che hanno compreso la situazione si sono adattati al lockdown e ora riprendono la loro vita”. Ma non per tutti è stato così.
Coronavirus: i “nuovi frustrati”
C’è stato chi ha sofferto terribilmente le ristrettezze ed ha anche rischiato di cadere in depressione o di sviluppare inopportune paranoie. Dice il dottore: “Quello che abbiamo osservato nella nostra attività clinica è che ci sono due grandi categorie di profilo psicologico, abbastanza equivalenti numericamente. La prima è di coloro che hanno vissuto il lockdown come degli arresti domiciliari, senza colpa penale. Hanno subito la convivenza in ambienti stretti con dinamiche famigliari vissute come frustranti, subendo l’obbligo di assolvere ai loro doveri di genitore o di figlio.
Queste persone hanno vissuto la fine del lockdown come un “tana libera tutti”, per tornare a vivere la loro visione individualistica e narcisistica della vita. Escono però con una carica di frustrazione e di revanchismo, che sono i presupposti per l’esagerazione, l’inosservanza delle regole, il disprezzo per il rischio”.
Coronavirus: casa o capanna?
La seconda categoria, invece, comprende “quelli che hanno costruito la loro vita su una base fragile, vulnerabile, in cui l’ambiente esterno viene vissuto come frustrante, aggressivo, competitivo. Manca l’autostima e, tutto sommato, nel lockdown, queste persone hanno trovato la loro “capanna”, un approdo sicuro ripulito dall’aggressività e dai fallimenti”. “Dopo mesi di lockdown, fanno molta fatica ad abbandonare il luogo sicuro. Si tende a evitare il confronto, ad allontanare la scadenza della ripresa, a usare lo smart working come una comoda scusa per ripararsi dietro uno schermo rifiutando il confronto reale”.
Il disturbo post-traumatico da stress
A questa catalogazione si deve aggiungere la categoria più mortificata: “Al culmine dell’epidemia, ci sono state decine di migliaia di persone che sono morte, senza il conforto dell’addio, senza poter salutare i propri cari. Se si considera mediamente che ogni vittima ha almeno tre familiari, parliamo di una potenziale platea molto ampia di persone rimaste senza lutto, che dovremo ascoltare e seguire con attenzione, perché una condizione così estrema rischia di diventare la premessa per il disturbo post-traumatico da stress”.
Antonella Sanicanti
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