Chiesa, Islam e arcobaleno | Perché due pesi e due misure sui diritti LGBT?

La vicenda dei mondiali Qatar 2022 “de-arcobalenizzati” ha il sapore di un film già visto: quando ad opporsi al politicamente corretto è la Chiesa Cattolica, apriti cielo, se invece l’ostacolo è rappresentato dall’Islam si usa il guanto di velluto.

Sta suscitando polemiche a sfondo ideologico come mai era successo in nessuna edizione dei mondiali precedente. Ne escono due visioni del mondo contrapposte, una delle quali, tuttavia, sta decisamente vincendo la sua partita.

chiesa islam lgbt ai mondiali
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Più che un mondiale di calcio, pare davvero il festival delle contraddizioni. Il match Inghilterra-Iran è stato il primo episodio che ha fatto venire al pettine i primi nodi ma il problema è ben più profondo.

Cortocircuito ideologico

Appena un anno e mezzo fa, si celebravano gli Europei del politicamente corretto, tra fascette in onore del Pride Month e stadi illuminati di arcobaleno. Da un po’ di anni, ormai, lo sport sta diventando uno dei canali privilegiati per la rivoluzione antropologica e la maggior parte dei campioni si prestano ad una propaganda dietro alla quale forse nemmeno loro sanno cosa c’è in gioco.

È bastato inaugurare il primo mondiale di calcio in un Paese mediorientale, per fare subito cortocircuito. Per mesi abbiamo assistito alle geremiadi della “buona stampa” occidentale sull’inopportunità di svolgere una manifestazione così importante in una nazione che non rispetta i diritti umani.

Si è parlato a lungo delle condizioni disumane in cui ha versato la manovalanza incaricata di organizzare l’evento. Poi, giù con l’inevitabile retorica sugli omosessuali perseguitati in Qatar.

Lo stesso presidente della FIFA, Gianni Infantino non è sfuggito a tale narrazione. “Mi sento Qatari, africano, arabo, migrante, gay”, ha detto Infantino, senza però aver fatto nulla, in sei anni di mandato, per indurre le autorità qatariote a più miti consigli, né tantomeno dimettendosi dall’incarico.

Del resto, era stato proprio Khalid Salman, ambasciatore ai mondiali, nonché ex calciatore, a definire l’omosessualità un “danno mentale”. Le leggi del Qatar non puniscono l’omosessualità in sé ma sono severissime nel vietare ogni forma di effusione in pubblico, anche etero. Inoltre, chiunque può essere processato e persino condannato a morte, se ritenuto responsabile di istigare un maschio a “commettere sodomia”.

Pecunia non olet

Le maschere di questa “molto triste buffoneria” di pirandelliana memoria sono venute giù in particolare al momento della partita Inghilterra-Iran, disputatasi il secondo giorno dei mondiali.

Il capitano inglese Harry Kane è stato diffidato dalla stessa FIFA dall’indossare la fascia arcobaleno con la scritta “One love, pena l’ammonizione prima ancora del fischio d’inizio. L’unica fascia consentita sarà quella con la più generica scritta “No discrimination”.

Altre nazionali, tra cui la Germania e l’Olanda, avevano promesso fino all’ultimo l’esibizione della controversa fascia per solidarizzare con la comunità LGBT+ discriminata. Alla fine, tutte e tre le nazionali europee menzionate, oltre a Belgio, Galles, Svizzera e Danimarca hanno preferito rinunciare, sia pure molto a malincuore, al gesto simbolico.

chiesa islam lgbt ai mondiali
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In particolare, l’Inghilterra non ha potuto permettersi una crisi diplomatica con un Paese come il Qatar, con cui i rapporti d’affari sono particolarmente redditizi.

Come riferisce il settimanale Tempi, “il Qatar è uno dei principali investitori nel Regno Unito e il fondo sovrano qatariota – la Qatar Investment Authority – possiede ormai proprietà immobiliari superiori a quelle dei Windsor a Londra. Da Heathrow passando per Harrods e per il business district di Canary Wharf, non c’è zona del centro di Londra su cui gli emiri non abbiano messo le mani”.

Cartellino rosso per Gesù…

La vicenda dei mondiali “de-arcobalenizzati” ha il sapore di un film già visto: se ad opporsi al politicamente corretto è la Chiesa Cattolica, l’imponente macchina da guerra LGBT+ riesce a mordere; se tuttavia l’ostacolo è rappresentato dall’Islam e dalla cultura che questa religione esprime, ci si limita ad abbaiare e, alla fine dei giochi, la diatriba è facilmente dimenticata, in nome di una divinità mondana universale che coincide con il denaro, il successo e il prestigio.

Viene spontaneo domandarsi se un dissenso così “al velluto” sarebbe stato riservato anche a un’istituzione cristiana. Sotto questa prospettiva, arriva una notizia che non lascia presagire nulla di buono: la Nike, che detiene i diritti sulle maglie ufficiali del Brasile nella Coppa del Mondo, ha vietato la produzione di divise recanti il nome di Gesù.

Un diktat che scontenta la nazionale verdeoro, nelle quali milita l’attaccante Gabriel Jesus, che domani dovrebbe debuttate da titolare contro la Serbia. La Nike, in ogni caso, ha messo il veto sulla riproduzione di qualunque parola che abbia riferimento a Cristo, ai cristiani o al cristianesimo. L’obiettivo? Evitare “qualsiasi discriminazione religiosa”.

Morale: secondo le multinazionali organizzazioni internazionali (sportive e non) escludere la religione dallo spazio pubblico e da qualunque discussione sarebbe segno di civiltà. Alla luce di quanto sta avvenendo ai mondiali in Qatar, tuttavia, alcune discriminazioni sarebbero più “eque” di altre.

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