Se la fede è dono di Dio, perché non tutti ce l’hanno?
A questa domanda sembra difficile o impossibile rispondere solo perché si pensa che la fede sia una “cosa”, un “oggetto”, una specie di “pacco regalo” che dipende solo da colui che fa il dono, e non anche da colui che lo riceve. Questo, infatti, il ragionamento: Dio è buono e fa a tutti – senza differenze – i suoi doni; un dono, è un qualcosa che viene fatto da uno (Dio) ad un altro (uomo); ma, allora, se la fede è un dono di Dio, visto che Dio è imparziale, perché alcuni… non ce l’hanno? Appunto: non ce l’hanno, come se la fede fosse una specie di cosa da avere.
Ma la fede non è una cosa, bensì una relazione di vita con Qualcuno; quindi non la si può “avere” indipendentemente dalla libertà e dalla volontà di entrambe le persone coinvolte (io e Dio). Credere, infatti, è entrare in relazione con Dio, seguirLo, costruire la vita sulla “roccia della sua Parola”. E se l’uomo non lo vuole, se preferisce costruire la sua vita “sulla sabbia”, Dio non costringerà nessuno controvoglia, non obbligherà a ricevere il dono del Suo Amore. Perché un’amicizia, un amore non li si possono imporre, li si possono solamente proporre. Per questo non solo non si può obbligare nessuno a credere in Dio, ma Dio stesso vuole essere accolto e scelto liberamente, non subìto: “se vuoi, vieni e seguimi”.
Dicendo che la fede è “dono di Dio” si vuole affermare, quindi, che la fede segue la logica del “dono” e non del “mercato” (non è imposta a nessuno, chiama in causa la libertà sia dell’uomo sia di Dio); che Dio (Lui sì!) è sempre disponibile ad entrare in relazione con l’uomo, che lo ricerca e lo ama per primo; e, infine, che ogni momento dell’incontro tra Dio e l’uomo (dal suo inizio al suo sviluppo) è sempre avvolto da questa benevolenza di Dio che continua ad invitare l’uomo ad affidarsi a Lui, a credere in Lui come la Via, la Verità e la Vita.
Ma è “umano” credere?
Capita ancora che il credente si senta dire più o meno direttamente: “ma tu ci credi ancora?”. Come se il “credere” fosse una “cosa” ormai passata, che eventualmente andava bene per la vita di qualche secolo fa, ma che non è certo l’atteggiamento dell’uomo à la page, di chi sa e conosce, di chi studia e si aggiorna. Ma il “credere” è una dimensione che appartiene ad uno stadio primitivo e infantile della vita dell’uomo – e che come tale, quindi, può e deve essere superata –, o è un segno di un’umanità matura e completa? Un uomo “che crede”, è un uomo “vero”, un adulto che affronta la vita, o è solo un “bambinone”, che, siccome non ha il coraggio e la forza di “usare il cervello”, continua ancora a “fidarsi”?
È possibile iniziare a trovare tracce di una risposta ponendo attenzione all’esperienza della vita quotidiana di ciascun uomo di oggi (e di sempre): senza “credere”, senza “fiducia” non si può – letteralmente – vivere e l’esistenza diventa disumana. Le nostre giornate, infatti, sono vissute – e vivibili – proprio perché in gran parte… “ci si fida”! Ci si fida del fatto che il contenuto della scatola di pasta comprata al supermercato sia proprio quello indicato sulla confezione… e nessuno di noi si sognerebbe di non fidarsi e di portarla in un laboratorio chimico per “dimostrare” che è veramente così. Ci si fida del fatto che quando scatta il semaforo verde per noi, quelli che hanno il semaforo rosso si fermeranno e consentiranno il nostro passaggio… e nessuno di noi si sognerebbe di procedere ad un’analisi logica rigorosa per verificare se davvero questo avverrà. E gli esempi potrebbero continuare a iosa. Perché la stragrande maggioranza delle cose che facciamo durante la giornata, le facciamo non tanto perché “dimostriamo” tutto, ma perché ci fidiamo. Credere, dunque, è la “cosa” più umana di questo mondo e nessuno potrebbe vivere senza fidarsi.
Senza “credere” saremmo uomini?
Si diceva che “credere” è la “cosa” più umana di questo mondo, perché nessuno potrebbe condurre la sua vita volendo “dimostrare” tutto, senza “fidarsi”. Ancor più radicalmente, si deve dire che senza fidarci e affidarci non saremmo neppure diventati uomini. Mi spiego.
Dopo Freud e grazie anche alla psicoanalisi, abbiamo la possibilità di sapere con più precisione che il bambino può diventare uomo, può costruire la sua identità, solo e soltanto se si fida di legami parentali affidabili. Perché se ciò non avvenisse, si creano dei disagi (fino alle patologie più serie) con cui si rischia di dover fare i conti per tutta la vita. Non è quindi la “ragione” la qualità originaria e originante la vita dell’uomo: si diventa uomini solo fidandosi e affidandosi all’amore di papà e mamma (o chi ne fa le veci). La razionalità parte molto tempo dopo (e si tratta proprio di mesi e mesi successivi alla nascita!), non è la prima “cosa” che il bambino fa e di cui il bambino vive. Anzi: la razionalità diventa vivibile e umana, solo e soltanto se si può “appoggiare” su una dimensione di fiducia e di affidamento alla realtà. Un esempio cinematografico: A beautiful mind ha portato sugli schermi la vicenda di un grande matematico che aveva una razionalità lucidissima, ma che non riusciva a vivere umanamente, perché mancante di questa trama di legami affidabili che strutturano la vita umana. La razionalità anche più eccelsa, quindi, separata dall’originaria dimensione di fiducia che struttura la vita umana, diventa… “patologica”. Perché ciò che è all’origine dell’identità di un bambino (e di un uomo, sempre) è la struttura dei legami con il mondo, con se stessi, con i genitori (e con Dio!) cui ci si affida fin dall’inizio. Si dimentica troppo facilmente che si può “umanamente” ragionare (all’inizio della vita del bambino, ma così sempre – anche quanto non ce se ne accorge più) solo e soltanto se questa struttura di legami affidabili continua ad esserci.
Per questo è possibile dire che essere “credenti” è la cosa più normale e sensata di questo mondo, perché senza fiducia e affidamento non saremmo neppure mai diventati uomini “normali” e non si potrebbe neppure ragionare sulla vita. La questione vera, dunque, è: visto che senza fidarsi non si può essere uomini e vivere umanamente, quali sono le realtà degne di fiducia? di quali legami, di quali persone ci si può e ci si deve affidare?
Che cosa intendere precisamente con “credere”?
In italiano, “credere” è uno strano verbo, perché contiene sia l’idea di sicurezza e sia quella di insicurezza. Si può dire “credo che domani faccia bello”, per dire che penso così, ma non ne sono ben sicuro e non mi meraviglierei troppo qualora capitasse il contrario. Si può dire “credo al medico che mi propone una certa cura”, per dire che mi fido del medico e perciò accetto come valido per guarire qualcosa che per me non è verificabile (e perciò mi può rimanere sempre, fino a guarigione avvenuta, un margine più o meno grande di dubbio). Si può dire “quello è uno che crede a ciò che fa”, per dire che è un tipo assolutamente sicuro di ciò che fa e che si butta con convinzione, entusiasmo e rischio in ciò che fa. In italiano, dunque, “credere” è un verbo che va dall’idea di una realtà poco sicura, ad una, invece, molto sicura.
Credere in Dio è un salto nel buio?
Anche tra credenti si sente dire talvolta che la fede in Dio è una specie di salto nel buio, una fiducia “cieca”, un fidarsi senza garanzie e senza nessun appiglio. Anzi: si dice pure che solo una fede così (cieca, senza garanzie, quasi irrazionale…) è “vera” fede. Perché il cercare “prove”, il volerci “ragionare su”, il tentare di trovare qualche “garanzia”… sarebbe invece segno di una fede debole, insicura, troppo “umana” e poco fiduciosa della potenza di Dio. Insomma: più si andrebbe contro ogni evidenza e possibilità umana, più questa sarebbe una fede “cristiana”.
Ma il Magistero della Chiesa ha esplicitamente condannato l’affermazione che la fede sia solo un cieco moto dell’animo: se il credere in Gesù Cristo fosse solo un salto nel buio senza motivi, solo una specie di esigenza o di volontà interiore senza possibilità di riscontro esteriore, si ridurrebbe la fede a superstizione (non ho nessun motivo per verificare, ma io “ci credo”) e si ridurrebbe Gesù a pura invenzione umana (lui non è esistito, ma è solo una risposta ai miei bisogni).
Credere, infatti, non è un salto cieco nel buio, perché Gesù è esistito ed è incontrabile, e credere in Lui è una questione di vita da vivere. Credere – come dice l’etimologia del verbo ebraico – significa trovare in Dio la roccia su cui appoggiarsi per stare in piedi nella vita. Credere, dunque, è una questione di vita, di vita sperimentabile e vivibile. Per questo Gesù alla domanda dei primi discepoli. “Maestro, dove abiti?”, risponde “Venite e vedrete”. Ed essi “andarono e videro dove abitava e quel giorno si fermarono presso di lui” (Gv 1, 38-39). Altro che salto nel buio! Qui Gesù chiede di andare a vivere la vita con Lui e come Lui, chiede di provare a vedere il mondo attraverso le sue parole e i suoi insegnamenti. Credere è provare a vivere la vita in Gesù e con Gesù, e vedere che una vita vissuta così “sta in piedi”.
Si può “provare” (l’esistenza di) Dio?
Nel corso dei secoli, cristiani e non cristiani hanno tentato di “provare” in qualche modo l’esistenza di Dio, cercare dei segni nel mondo e nell’uomo capaci di offrire una sufficiente garanzia di certezza al fatto che Dio esista. Si voleva, infatti, attraverso un ragionamento quasi “costringere” a dire: “vedi? Non puoi negare che Dio esista!”. Ragionamenti del genere ci possono anche stare e possono forse servire a qualcuno, e non è certo un male impegnarsi in più o meno sofisticate ed elaborate riflessioni per “mostrare”, “indicare” Dio e la sua presenza. Ma tutto questo non porta a “credere in Dio”. Perché credere, è una questione di vita, e quindi di libertà e di volontà.
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