C’è solo una condizione in cui possiamo dire “io”: qual è?

Il passaggio dal XX al XXI ha visto il trionfo assoluto dell’io e la sua successiva disintegrazione, ne parla il teologo spagnolo Javier Prades Lopez al Meeting di Rimini 2021.

 Non si tratta di astrazioni filosofiche ma di una crisi antropologica con cui dobbiamo fare i conti ogni giorno.

Il dilemma di Kierkegaard

Il Meeting di Rimini ha raccolto la sfida scegliendo come tema per quest’anno Il coraggio di dire “io”, che riprende una frase dei diari di Soren Kierkegaard (1813-1855). Come ha ricordato Bernhard Scholz, presidente Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli, nell’introduzione al tema dell’attuale edizione, un problema odierno cruciale è la “mancanza di realismo” delle ideologie dominanti. Con il risultato che l’uomo non ha più consapevolezza della propria identità, del proprio io.

Ad approfondire il dilemma ci ha pensato Javier Prades Lopez, sacerdote della diocesi di Madrid, professore di Teologia Sistematica presso l’Università San Damaso di M

adrid, di cui è anche rettore. 61 anni, ospite fisso al Meeting di Rimini da parecchie edizioni, il professor Prades ha preso in esame vari punti di riferimento ‘laici’ degli ultimi due secoli, per trovare una conclusione pregnante e soddisfacente nelle Sacre Scritture.

Il già menzionato Kierkegaard si interrogava su quale fosse la maniera adeguata di “comunicare la verità” e, prendendo le distanze dal pensiero “idealista e razionale” allora dominante, comprese quanto fosse sterile la “speculazione intellettuale astratta. Per comprendere la realtà, affermava il filosofo danese, occorre che la persona si metta in gioco.

La nemesi dell’individualismo esasperato

All’inizio del 1900, uno dei primi testimoni della disintegrazione dell’io è Luigi Pirandello (1867-1936). Il protagonista di Uno, nessuno e centomila, Vitangelo Moscarda, da un banalissimo episodio quotidiano, prende coscienza quanto sia più facile il giudizio degli altri rispetto alla sincera conoscenza di se stessi. Se, però, si assolutizza questo assunto, allora l’io si disperde e la crisi d’identità è totale.

Prades ha poi individuato un secondo archetipo nelle canzoni dei Queen. Nei suoi testi, Freddie Mercury (1946-1991) esaltava uno slancio vitale incontenibile, che si individua sin dai testi: We Are The Champions, Don’t Stop Me Now, I Want To Break Free, I Want It All. Anche questa sete inesausta di emozioni, questa fame di affetto, però, annaspa nella solitudine di altre liriche come: “Can anybody find me somebody to love?”.

La prolusione del teologo spagnolo è quindi approdata sul cinema e sulla fiction. La serie tv Euforia esplora il vuoto esistenziale di ragazzi a cui è stato tolto il senso del limite. Un film come Nomadland mette in luce la solitudine delle persone di mezz’età finite sulla strada a seguito della crisi del 2008.

La svolta nella scoperta di un “Tu”

Un senso della ricomposizione della solitudine può avvenire solo nella scoperta della propria identità in un altro: non un altro qualunque ma un Altro infinito.

Lo aveva colto parecchi anni fa, una giovane rappresentante di Gioventù Studentesca (antesignana di Comunione e Liberazione), Adriana Mascagni, che, nella sua canzone Il mio volto, scrive: “Mio Dio, mi guardo ed ecco scopro che non ho volto guardo il mio fondo e vedo il buio senza fine. Solo quando mi accorgo che Tu sei come un’eco risento la mia voce e rinasco come il tempo del ricordo”.

“Questa ragazza aveva percepito ciò che molti grandi pensatori hanno spiegato”, ha sottolineato Prades, citando Edith Stein (1891-1942) che parla dell’“essere fugace” e della sua “vertigine del vivere” di un uomo che trova la sua forza soltanto nell’essere sostenuto.

Parimenti Urs von Balthasar (1905-1988) prende atto “non è sul guanciale della meditazione che l’uomo incontrerà se stesso” ma soltanto nel consegnarsi a un altro.

Con Abramo e Gesù verso la “pienezza dell’umano”

La riflessione di Prades giunge così a un “terzo quadro”, in cui entrano in campo l’uomo e Dio che lo chiama. Possiamo dire “io”, allora, soltanto se c’è un “tu” che ci chiama. Così è avvenuto con “Abramo all’inizio dei tempi”, tuttavia, “la piena affermazione dell’io è Gesu”, ha spiegato il relatore.

Coloro che si avvicinano a Gesù, diventano figli del Padre, in un certo senso “sono figli nel Figlio ed hanno quindi acquisito una autocoscienza e libertà che li ha resi protagonisti oltre ogni immaginazione. Ecco dunque – ha proseguito Prades – che la consapevolezza che il nostro essere scaturisce dall’amor di Dio, genera la coscienza di dover rispondere a questo amore, e questo è l’origine della nostra responsabilità”.

L’io non può risolversi in una solitudine narcisistica ed autoreferenziale: il risultato sarebbe la sua disintegrazione. È vero come affermava Manzoni per bocca di don Abbondio che “il coraggio uno non può darselo da sé” ma è altrettanto vero, come diceva don Giussani, che “il coraggio può nascere muovendo da una simpatia, da un incontro, come fu per gli apostoli che si sono legati a Gesù”.

La risposta affermativa di Abramo a Dio, di Pietro a Gesù plasmano la “pienezza dell’umano”. È nella “coincidenza di pensiero ed azione, che si gioca attraverso la libertà, e la strada che genera l’io è fatta di ragione, giudizio, affezione e libertà”, ha quindi concluso Prades.

Luca Marcolivio

 

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