Il sinodo sulla famiglia è governato dal sentimento?

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Verso la fine della seconda settimana del Sinodo sulla famiglia i media hanno divulgato la storia che un vescovo aveva raccontato al sinodo, una storia accaduta nella sua diocesi, quella di un bambino ,il cui padre è risposato non in chiesa, che nel giorno della sua prima comunione spezza la sua ostia e da un pezzo al padre. Il padre che non può ricevere la Comunione, considerando la sua situazione irregolare, quel giorno tuttavia l’ha ricevuta, per mano di suo figlio. Il vescovo ha raccontato questa storia per promuovere la sua causa, l’ammissione alla comunione uomini e donne divorziati e risposati. Lui era profondamente commosso quando ha descritto il gesto spontaneo del bambino. Questa storia richiede una riflessione. E ‘accettabile che un vescovo usa l’innocenza di un bambino per manipolare emotivamente il sinodo a favore della sua causa? E ancora di più: il lavoro dei vescovi riuniti a Roma è guidato dal sentimento? I media hanno riferito che i padri sinodali erano toccati da questa particolare testimonianza. Questo è in linea con l’approccio normale dei media. I media sanno che il nostro mondo è in gran parte governato dall’emozione, e hanno prontamente giocato sui sentimenti. Il mondo in cui viviamo discerne la realtà attraverso il confronto di un film di Hollywood, pieno di sentimenti spesso superficiali. Cerchiamo questi sentimenti nella nostra vita, e se mancano, sentiamo che abbiamo fallito. Il mondo di oggi considera il matrimonio un successo se i coniugi sono appassionatamente innamorati, se il rapporto è carico di desiderio e attrazione, se i coniugi godono a vicenda e si divertono. Tendiamo sempre a considerare come ci sentiamo e basandoci sul sentimento valutiamo la vita e facciamo le nostre scelte. Una cosa è una buona se ci fa sentire bene. Siamo pronti a rompere una famiglia se manca il sentimento, o se ci sentiamo meglio con qualcun altro. Eppure il nostro sentimento non è un criterio affidabile per le scelte serie. Siamo facilmente ingannati dalle nostre emozioni. Ma un rapporto coniugale non è una questione di sentimento. E’ un’impresa poco sentimentale. Dipende dall’esercizio della volontà giustamente ordinata, come la maggior parte delle cose nella vita. Naturalmente è buono se in un matrimonio ci si sente bene, ma la bella sensazione non è l’obiettivo del matrimonio. Il matrimonio è costruire una famiglia con un’altra persona, assumere la responsabilità di questa famiglia e di mantenerla, di prendersi cura dei bambini, di mostrare premura e amore per il proprio coniuge, e insieme mettere tutti gli aspetti della loro vita familiare nelle mani di Dio. Per farlo funzionare, è fondamentale non pensare troppo a come ci si sente, con il paradossale risultato che si finisce per sentirsi bene. Ritornando alla storia del bambino alla Prima Comunione, forse i vescovi, invece di governare la Chiesa con i sentimenti, e chiedere alle famiglie delle diocesi come si sentono, dovrebbero sostenerli e incoraggiarli nel grande compito affidato ai coniugi e le famiglie nella società. Un compito impossibile da svolgere con atteggiamenti sentimentalisti. Per quanto riguarda il padre che ha portato il bambino alla Prima Comunione, potremmo chiederci: perché? Sicuramente perché ama la Chiesa e sa che fuori la Chiesa non c’è la salvezza. Nel suo amore per la Chiesa, avrebbe potuto spiegare al figlio che, come conseguenza delle sue scelte, non può ricevere la Comunione; e che la comunione non è un diritto da rivendicare sempre e comunque. Egli avrebbe potuto spiegare al figlio che la Chiesa non assolve gli uomini e le donne dalla responsabilità e le conseguenze della loro libera scelta, semplicemente perché li lascia liberi, casomai li guida ad esercitare una libertà responsabile, e questa è una cosa bella, e rara nel mondo di oggi. Così insegna a suo figlio che la fede non è comoda, richiede che si porti la propria croce. ‘Chi non prende la sua croce e mi segue, non può essere mio discepolo’, dice il Signore (cfr. Lc 14,27). Una croce è talvolta pesante, altrimenti non sarebbe una croce. Eppure, portando la croce troviamo la libertà. C’è un gran parlare di ‘compassione’ al Sinodo. La parola è spesso usata per indicare una capacità emotiva per entrare nel dolore degli altri. Eppure la compassione riguarda un’azione, non un’emozione. La compassione cristiana va oltre l’empatia. Essa mi obbliga a fare qualcosa, a portare le sofferenze di un altro come se fossero mie. La compassione non si riduce al dispiacersi e dire:’Poverino’. Il compito di un prete è come quello di un medico. Con il giuramento di Ippocrate, i medici assumono un obbligo quadruplice: consolare, alleviare il dolore, se possibile guarire, e mai nuocere. Ma per seguire questi obblighi bisogna essere vigilanti. Il sentimentalismo può prendere il sopravvento, e svolgere un lavoro di sottile deformazione. Il consolare allora diventa dispiacersi, cercare di compensare (invece di alleviare il dolore) con un paliativo. La prospettiva di guarire è abbandonata e invece la vita è dichiarata una malattia. Questo non può che essere dannoso. È dannoso perché in questo modo l’autonomia, la responsabilità e la libertà delle donne e degli uomini sono compromesse. Un sacerdote deve essere convinto che amministra l’unica medicina di cui i credenti hanno veramente bisogno, a prescindere dallo stato in cui la persona viene lui. Consolare con il regno dei cieli. Alleviare il dolore portando la croce con il credente. Guarire, non medicando il peccato, ma mostrando ai fedeli il significato del pentimento (unica vera guarigione), della conversione e del perdono. In questo modo egli si mostra un buon ed efficace medico. E non fa male.

Fonte: Armando Andreoni

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